Mentre la pandemia da nuovo coronavirus continua a diffondersi in Italia e all’estero, mettendo a dura prova gli ospedali di tutto il mondo, la nostra conoscenza della malattia causata dal virus è purtroppo ancora molto limitata, così come mancano al momento terapie efficaci per contrastarla.
Ecco perché è fondamentale avviare degli studi clinici rigorosi che permettano di capire meglio perché COVID-19 si manifesti con una gravità così variabile da paziente a paziente e quali sono i farmaci disponibili più efficaci per ciascun caso.
Con questo obiettivo è stato avviato all’IRCCS Ospedale San Raffaele un maxi studio clinico osservazionale coordinato dai professori Alberto Zangrillo, direttore dell’Unità di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare- e Giovanni Landoni, direttore del Centro di Ricerca in Anestesia e Terapia Intensiva della stessa Unità.
Lo studio include le diverse centinaia di pazienti con COVID-19 già in cura presso la struttura e tutti quelli che verranno ricoverati in futuro.
Si tratta di protocollo unitario che permetterà di raccogliere informazioni sia cliniche che biologiche in modo sistematico e quindi di ottenere dati affidabili sull’efficacia dei farmaci oggi somministrati negli ospedali italiani.
All’interno dello studio ogni paziente segue lo stesso iter terapeutico, benché possa essere preso in carico da oltre 7 reparti diversi che oggi sono dedicati all’emergenza COVID-19 presso l’Ospedale San Raffaele.
Il percorso inizia con il prelievo di diversi campioni biologici tra cui sangue, plasma, urine e tamponi virali.
Incrociando le informazioni che emergono dai campioni con i protocolli di trattamento e i dati clinici raccolti dai pazienti lungo l’intero periodo di degenza, i medici ricercatori del San Raffaele sperano di riuscire a: capire meglio cosa accomuna i pazienti più gravi; quali sono gli indicatori che ci permettono di prevedere il decorso della malattia; quali sono i farmaci che funzionano meglio nei diversi casi.
“Solo mediante studi di elevata qualità, condotti su numeri adeguati di pazienti, potremo dare risposte scientificamente valide a quel bisogno di una cura che la comunità medica Italiana ed internazionale sta cercando”, afferma il professor Fabio Ciceri, vice direttore scientifico per la ricerca clinica dell’Ospedale San Raffaele e primario dell’unità di Ematologia e Trapianto di Midollo.
“Al contrario, dichiarazioni estemporanee, basate sul trattamento sperimentale di pochi pazienti in un contesto d’emergenza, rischiano solo di confondere il pubblico e la classe medica. Questo è ancora più vero per una malattia che mostra una così grande grande variabilità clinica come COVID-19”.
Il nuovo coronavirus si manifesta, infatti, in modo molto diversificato dal punto di vista della gravità dei sintomi.
E questo non solo perché in quasi l’80% dei pazienti la presenza del virus è poco o per nulla sintomatica e nel restante 20% dà origine a una polmonite grave. Si osserva grande variabilità anche in quel 20% di pazienti più gravi ricoverati in ospedale.
“Molti si riprendono con la sola somministrazione dell’ossigeno, altri necessitano della terapia intensiva e in alcuni casi addirittura dell’ossigenazione extracorporea, la cosiddetta ECMO”, spiega il professor Alberto Zangrillo. “Al momento, su questo fronte, stiamo studiando il beneficio dalla ventilazione non-invasiva in uno stadio precocissimo della malattia.
Mentre nei pazienti nella fase maggiormente critica stiamo testando l’uso dell’Angiotensina II, un vasocostrittore già usato in terapia intensiva e che potrebbe dare un beneficio proprio in questi pazienti”.
Non è al momento chiaro che cosa distingua il diverso decorso dei pazienti con COVID-19, ma spesso a giocare un ruolo chiave nell’aggravarsi dei sintomi sembra esserci un’eccessiva risposta del sistema immunitario.
“In una parte dei pazienti si osservano altissimi livelli di infiammazione, al punto che il danno polmonare sembra essere causato in modo sostanziale anche dalle difese immunitarie stesse, ormai fuori controllo”, spiega il professor Lorenzo Dagna, primario dell’Unità di Immunologia e Reumatologia.
“Alcuni superano questo momento con la sola somministrazione di ossigeno, mentre altri non sembrano rispondere neanche a terapie antinfiammatorie e immunosoppressive più impegnative. Capire quali sono i pazienti più a rischio di avere questo tipo di decorso e intervenire precocemente potrebbe fare la differenza. Ecco perché una sperimentazione rigorosa e su gruppi omogenei di pazienti è fondamentale”.
Dal momento che non esistono ancora farmaci specifici per la malattia, le terapie sperimentali testate in queste settimane in Italia sui pazienti con COVID-19 utilizzano tutti farmaci in regime off-label.
Si tratta di farmaci approvati, ma indicati per altre patologie, o addirittura non ancora approvati e dunque somministrati a uso compassionevole, previa valutazione da parte del Comitato Etico Istituzionale.
La prima classe di farmaci sono gli antivirali, che impediscono cioè la replicazione del virus e aiutano il sistema immunitario a contenere l’infezione.
I più utilizzati – in regime off-label – sono la clorochina o l’idrossiclorochina, molecole commercializzate già dal primo dopoguerra come farmaci contro la malaria, ma dotati anche di proprietà antivirali e antinfiammatorie.
Secondo i primi studi effettuati in Cina l’utilizzo di clorochina migliora la sintomatologia dei pazienti e riduce il periodo di degenza.
Altri farmaci antivirali utilizzati nei pazienti con COVID-19 sono Kaletra, solitamente impiegato per HIV, e Remdesivir, sviluppato inizialmente per Ebola, ma che nei primi test di laboratorio era risultato efficace anche su un coronavirus.
A differenza degli altri, non essendo mai stato approvato per il commercio, Remdesivir viene per ora somministrato a scopo compassionevole in terapia intensiva.
A breve dovrebbe però entrare nei primi trial clinici con pazienti in fasi meno avanzate della malattia.
“Una delle conseguenze di COVID-19 è l’eccessiva infiammazione che si verifica a livello polmonare e che contribuisce in alcuni casi a gravi polmoniti e insufficienze respiratorie, per le quali può essere necessario il ricovero in terapia intensiva”, spiega Lorenzo Dagna. “Ecco perché si è pensato di utilizzare molecole capaci di spegnere l’eccessiva risposta immunitaria e contribuire in questo modo alla ripresa funzionale dei polmoni”.
In questo caso, la molecola più utilizzata è Tocilizumab, un anticorpo monoclonale già in commercio per l’artrite reumatoide che agisce bloccando la produzione di Interleuchina-6, una molecola infiammatoria prodotta dal sistema immunitario in risposta a infezioni virali.
Ma ce ne sono altre in sperimentazione, come Anakinra, che agisce sull’Interleuchina-1, o Sarilumab, che funziona ancora su IL-6.
L’utilizzo di questi farmaci immunosoppressivi, riducendo l’azione del sistema immunitario dei pazienti, rischia però di esporli ad altre infezioni.
“Non è noto se questa depressione del sistema immunitario, possibilmente benefica nel controllare le prime fasi della polmonite COVID19, possa determinare una meno efficace eliminazione del virus da parte del sistema immunitario stesso”, conclude Fabio Ciceri. “Ecco perché bisogna agire con grande prudenza ed equilibrio”.