Si manifesta con gonfiore degli occhi e delle caviglie, nei casi più gravi con accumulo di liquidi nell’addome, nel torace o negli organi genitali. È la sindrome nefrosica, una patologia che colpisce il “glomerulo renale”, una sorta di “gomitolo” di capillari all’interno del rene, che ha la funzione fondamentale di filtrare il sangue per produrre le urine. Il suo malfunzionamento può provocare gravi conseguenze fino a richiedere, in alcuni casi, la dialisi o il trapianto dell’organo. A questa patologia la rivista scientifica “The Lancet” ha dedicato una review per fare il punto sulle conoscenze, la diagnosi e il trattamento dei pazienti colpiti dalla sindrome nefrosica in età pediatrica, offrendo indicazioni pratiche ai medici non specialisti. Il lavoro è stato affidato al coordinamento dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che ha collaborato con i centri di nefrologia pediatrica dell’Università del North Carolina, dell’All India Institute of Medical Sciences di New Delhi e dell’Ospedale Necker di Parigi.

Sebbene la sindrome nefrosica idiopatica sia la più comune patologia del glomerulo renale dell’infanzia, si tratta tuttavia di una malattia rara, con un’incidenza da 4 a 6 casi per 100mila bambini.

Il glomerulo renale, una sorta di “gomitolo” formato da capillari e cellule specializzate chiamate podociti, ha la funzione di filtrare il sangue per produrre le urine. Quando questa barriera di filtrazione non funziona, per difetti genetici o per anomalie del sistema immunitario, si verifica la dispersione di un gran numero di proteine nelle urine e la conseguente riduzione del livello di proteine nel sangue, in particolare dell’albumina. L’ipoalbuminemia causa edemi, cioè ristagno dei liquidi nei tessuti, che si manifestano tramite gonfiore in varie parti del corpo, soprattutto occhi e caviglie. Di fronte a questi sintomi, è importante considerare di fare un test delle urine usando un semplice stick, che può rilevare la presenza di quantità anomale di proteine (proteinuria).

La tempestività della diagnosi è importante perché il progredire della malattia può portare a conseguenze molto serie fino all’insufficienza renale. Purtroppo, per le forme genetiche della sindrome nefrosica, non esistono terapie efficaci al momento e i pazienti sono destinati alla dialisi e al trapianto di rene. Per le forme legate ad anomalie del sistema immunitario, invece, esistono terapie a base di cortisone e farmaci immunosoppressori. Queste forme tendono a migliorare dopo l’adolescenza e solo una piccola parte dei pazienti continua a presentare problemi dopo la pubertà, in età giovanile e poi adulta.

L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è un centro di riferimento nazionale e internazionale per questa patologia e segue al momento circa 300 pazienti, con circa 15-30 nuovi casi ogni anno.

L’attività di revisione per “Lancet” è stata coordinata dalla dott.ssa Marina Vivarelli, responsabile dell’Unità di ricerca Laboratorio di Nefrologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, all’interno dell’Area di ricerca Pediatria traslazionale e Genetica clinica, diretta dal prof. Francesco Emma.

Il lavoro ha richiesto un anno di tempo ed ha preso in esame le pubblicazioni scientifiche soprattutto degli ultimi 5 anni, senza escludere gli studi più autorevoli degli anni precedenti. L’obiettivo dichiarato è quello di offrire un supporto alle decisioni cliniche dei medici in tutto il mondo, specie se non specialisti, attraverso una revisione complessiva delle ultime evidenze scientifiche. Una sorta di vademecum per la gestione dei pazienti affetti da questa patologia.

«Nonostante le sfide poste dalla rarità ed eterogeneità della sindrome nefrosica – spiega Marina Vivarelli – gli ultimi anni hanno registrato un notevole miglioramento della qualità dei dati disponibili per orientare la gestione dei pazienti affetti dalle diverse forme di questa patologia. Oggi siamo più bravi e più rapidi nell’identificare le forme genetiche della sindrome nefrosica. Ma anche nelle forme immuno-mediate, gli studi stanno evidenziando alcune combinazioni di varianti genetiche associate al rischio di sviluppare la malattia. Questo ci aiuta a capire meglio quale sia il meccanismo immunitario sottostante le forme di gran lunga più frequenti, che rispondono alla terapia con cortisone e che solo in certi casi necessitano di terapia immunosoppressiva prolungata. Per identificare fin dall’esordio le forme più difficili, possiamo effettuare una tipizzazione che aiuta a definire l’assetto immunologico dei pazienti, indirizzandoci verso le terapie più adatte».

Aggiunge Marina Vivarelli: «Recenti trial, alcuni dei quali eseguiti nel nostro ospedale in collaborazione con altri centri italiani ed esteri, hanno chiarito come trattare le recidive e come utilizzare al meglio alcuni dei farmaci immunosoppressori a nostra disposizione, come per esempio gli anticorpi monoclonali anti-CD20. Abbiamo inoltre tentato approcci innovativi e non dannosi per le forme più difficili, utilizzando ad esempio cellule mesenchimali autologhe in collaborazione con la nostra Cell Factory e con il prof. Franco Locatelli. La partecipazione alla stesura di linee guida internazionali ci ha permesso di lavorare a stretto contatto con colleghi provenienti da tutto il mondo e da realtà anche molto differenti dalla nostra dal punto di vista delle risorse disponibili. L’obiettivo è quello di fornire, anche per le forme più difficili di sindrome nefrosica, prospettive terapeutiche efficaci e non tossiche, in tutti i contesti socio-economici. La ricerca collaborativa in questo ambito è indispensabile e questa review, che mette insieme l’esperienza di colleghe provenienti da 3 continenti, ne è un esempio»