La terapia genica ha già raggiunto importanti successi, ma la sua applicazione è ancora ristretta a poche malattie e a pochi tipi di cellule: per ogni tipologia di cellule che vogliamo correggere occorre infatti mettere a punto protocolli di laboratorio specifici, che siano insieme efficaci ed efficienti. Un nuovo studio pubblicato su Cell Stem Cell* dal laboratorio guidato da Anna Kajaste-Rudnitski presso l’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano, in collaborazione con Greg Towers dello University College London, ha mostrato che una molecola naturale, la ciclosporina H, aumenta l’efficienza di trasferimento genico tramite vettori lentivirali nelle cellule staminali del sangue. Questo tipo di vettori, derivati dal virus Hiv, sono già ampiamente utilizzati in ambito clinico; grazie a questo nuovo “ingrediente” si potrebbe aumentarne l’efficacia, aprendo nuove prospettive per diverse malattie, tra cui per esempio la beta-talassemia, e potenzialmente ridurre i costi delle terapie esistenti.
Per correggere un difetto genetico, causa della malattia, la terapia genica inserisce una copia funzionante dello stesso gene all’interno delle cellule malate. Per farlo si utilizza normalmente un vettore, ovvero un virus spogliato del suo contenuto infettivo, che invece che sabotare la cellula porta al suo interno il Dna terapeutico. Non tutte le cellule, però, lasciano passare con la stessa facilità il vettore: alcune hanno meccanismi di difesa contro i virus che ne ostacolano l’ingresso, rendendo più difficile la terapia genica.
Le cellule staminali del sangue hanno queste difese antivirali innate sempre attive, al contrario dei linfociti T o di altri tipi cellulari più “permissivi”, che le utilizzano soltanto al bisogno. Il gruppo di Anna Kajaste-Rudnitski e collaboratori ha scoperto che, per via di queste difese, l’efficienza della terapia genica può risultare inferiore. Per alcune malattie questo è sufficiente, mentre in altri casi occorre usare grandi quantità di vettore, senza ottenere sempre i risultati auspicati. Grazie alla sua capacità di ridurre specificamente una delle linee di difesa, la ciclosporina H consente di correggere più cellule utilizzando meno vettore, e in un singolo passaggio. «Un protocollo che preveda l’utilizzo di questa sostanza consentirebbe di aumentare in modo significativo l’efficienza della terapia genica, garantendo un beneficio clinico pur utilizzando meno vettore: questo sarebbe valido anche in contesti in cui la terapia genica attualmente in fase di sperimentazione clinica rimane non ottimale, oppure nel caso di malattie ancora in fase preclinica» spiega Anna Kajaste-Rudnitski.
I ricercatori hanno osservato che la ciclosporina H funziona degradando temporaneamente IFITM3, una proteina cellulare coinvolta nella difesa contro molti virus, ma non ha altri effetti immunosoppressivi. Dopo circa sei ore dalla somministrazione della sostanza, i livelli di IFITM3 tornano infatti normali, senza che la biologia della cellula sia compromessa sul lungo periodo: un buon segno per le potenziali applicazioni cliniche.
«Una volta individuato questo meccanismo abbiamo visto che i donatori di cellule staminali hanno livelli variabili di IFITM3 correlati con la loro permissività al trasferimento genico. L’osservazione più importante è che più è presente questa proteina, maggiore è l’effetto della nostra molecola: i pazienti particolarmente difficili da trattare con i normali protocolli di terapia genica sono quindi anche quelli che potrebbero trarre maggior vantaggio dall’aggiunta di ciclosporina H».
Alcuni protocolli già usano molecole per potenziare l’efficienza dei vettori, come per esempio la prostaglandina E2, attualmente in uso nell’ambito del nuovo protocollo di terapia genica messo a punto dall’SR-Tiget per un’altra grave malattia genetica, la mucopolisaccaridosi di tipo 1. «La ciclosporina H, però, è ancora più potente, e conosciamo il suo meccanismo di funzionamento, il che permetterebbe un uso terapeutico più controllato. Infatti, la CsH consentirebbe non solo di aumentare l’efficacia della terapia genica ma ne garantirebbe anche gli stessi benefici clinici in tutti i pazienti, indipendentemente da quanto siano resistenti alla correzione genica per via dell’espressione di IFITM3» conclude Kajaste-Rudnitski.
Il gruppo di ricerca ha lavorato grazie ai finanziamenti ricevuti da Fondazione Telethon, dalla Commissione Europea e dal Wellcome Trust UK.