La scelta del luogo di cura può fare la differenza nella lotta contro i tumori. In Italia, da un lato, nella chirurgia del carcinoma del polmone, solo il 27% degli ospedali presenta un volume di attività pari o superiore a 70 operazioni all’anno. E soltanto il 23% dei centri esegue almeno 20 interventi annui nel tumore dello stomaco. Dall’altro lato, il nostro Paese registra miglioramenti nel cancro della mammella: nel 2017, il 20% degli ospedali ha effettuato almeno 150 interventi chirurgici, lo standard stabilito per legge, rispetto al 16,5% del 2015. Non solo. La proporzione di re-interventi di resezione entro 120 giorni da un’operazione conservativa per carcinoma della mammella si è ridotta nel tempo, passando dal 12,3% del 2010 al 7,4% del 2017, a conferma che alti volumi di attività garantiscono migliore qualità delle cure. Per orientare i pazienti oncologici e i loro familiari nella scelta del centro a cui rivolgersi per affrontare la malattia, Fondazione AIOM dedica due sezioni del sito a “Dove mi curo” e “Come mi curo”, temi al centro di un convegno nazionale oggi a Roma, realizzato con il contributo incondizionato di 3M.
“Nel 2018, in Italia, sono stati stimati 373.300 nuovi casi di tumore – spiega Fabrizio Nicolis, presidente di Fondazione AIOM -. Sempre più spesso i pazienti richiedono informazioni sui luoghi di assistenza adeguati, spinti dalla necessità di conoscere e identificare gli ospedali specializzati nel trattamento della malattia. I dati della letteratura scientifica hanno confermato la forte associazione tra volumi di attività chirurgica più alti e migliori esiti delle cure oncologiche. Vogliamo offrire ai cittadini una fotografia delle strutture sanitarie ad alto volume di chirurgia oncologica. Devono aumentare i centri che rispondono alla soglia minima di procedure chirurgiche richiesta. Tuttavia la scelta del luogo di cura deve tener conto non solo della quantità, cioè dei volumi di attività, ma anche delle buone pratiche assistenziali prima, durante e dopo la chirurgia, obiettivo che può essere realizzato solo grazie a team multidisciplinari, che caratterizzano ad esempio le Breast Unit/Centri di senologia. È significativo anche il dato sugli interventi di ricostruzione contestuale a un’operazione chirurgica demolitiva per carcinoma della mammella, che è migliorato nel tempo, passando dal 35,5% del 2010 al 50% del 2017. Questa procedura consente di semplificare il processo ricostruttivo dell’organo e di ridurre l’impatto psicologico e sociale dell’intervento demolitivo, senza modificare il percorso terapeutico della paziente”. Vi sono però notevoli differenze territoriali, anche all’interno di una stessa Regione. L’Umbria e la Provincia Autonoma di Trento riportano il 70% di ricostruzioni contestuali rispetto al 26% di Calabria e Campania.
“La chirurgia è la più antica forma di trattamento dei tumori e, fino a pochi decenni fa, era l’unica opzione da offrire ai pazienti – afferma Alessandro Gronchi, Presidente Eletto Società Italiana di Chirurgia Oncologica -. Oggi si integra appieno con trattamenti chemioterapici e radioterapici permettendo, molto spesso, di curare persone colpite da neoplasie un tempo considerate inguaribili. Da più di un trentennio, inoltre, si è definitivamente invertito il vecchio paradigma secondo il quale la massima asportazione di tessuto garantisce le migliori possibilità di cura. È innegabile il progresso verso una razionalizzazione e centralizzazione delle patologie oncologiche maggiori in centri ad alto volume di attività. Ad esempio, in 5 anni, la percentuale dei centri sopra la soglia richiesta è raddoppiata per il cancro del polmone e della mammella, anche se siamo ancora lontani dal conseguimento di un risultato ottimale. Basti pensare che soltanto quattro Regioni sono dotate di almeno una struttura che esegua più di 50 procedure all’anno nel carcinoma del pancreas. La situazione è ancora più complicata quando si pensa ai tumori rari. Complessivamente questi rappresentano il 20% di tutte le diagnosi di tumore osservate ogni anno e richiedono expertise che non possono essere presenti in tutte le strutture. È quindi indispensabile arrivare ad un sistema di riferimento dei pazienti, qualsiasi sia la loro patologia, cioè a centri ad alto volume per la patologia specifica. Il tutto andrebbe organizzato in una logica di rete, per minimizzare gli spostamenti dei pazienti alle fasi di cura in cui è strettamente necessario. Le reti oncologiche regionali, così come la rete nazionale tumori rari, dovrebbero diventare il cardine della riorganizzazione, per massimizzare gli outcome e minimizzare le spese del nostro sistema”.
Il sito di Fondazione AIOM, nelle sezioni dedicate a “Dove mi curo” e “Come mi curo”, utilizza i dati forniti dal Programma Nazionale Esiti dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali. I numeri sono suddivisi per Regione e per intervento chirurgico, riportando i dati degli ospedali che effettuano un numero totale di interventi superiore ad una determinata soglia. “Questo valore, per ciascuna patologia oncologica, è individuato da fonti nazionali e, nel caso di assenza di un riferimento normativo, si è fatto ricorso alla letteratura scientifica internazionale più recente – sottolinea Maria Chiara Corti, Coordinatore delle Attività del Programma Nazionale Esiti di AGENAS -. I dati della letteratura sono concordi nel sottolineare che il rischio post-operatorio per i pazienti diminuisce all’aumentare dei volumi di attività delle strutture e dei reparti. Le conoscenze scientifiche, da sole, non consentono di identificare per gli indicatori di volume un preciso e puntuale valore soglia, minimo o massimo, ma è possibile stabilire un intervallo, al di sotto del quale il rischio di esiti negativi aumenta notevolmente”. È dimostrato che la mortalità a 30 giorni dopo l’intervento chirurgico diminuisce decisamente nei centri con almeno 50-70 interventi all’anno per tumore del polmone, nei centri con almeno 50 interventi per carcinoma del pancreas e nei centri con 20-30 interventi per tumore dello stomaco.
“Ogni situazione deve essere analizzata da team multidisciplinari, che prevedono l’inclusione di tutte le figure professionali in grado di affrontare, gestire e risolvere le molteplici problematiche presentate dal malato: il chirurgo oncologo e l’anestesista-rianimatore, il nutrizionista, lo psicologo, l’oncologo medico e il radioterapista, senza dimenticare la figura dell’infermiere e l’apporto possibile in diverse fasi del percorso dei familiari-caregiver – spiega Flavia Petrini, Presidente Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva -. Lo specialista in anestesia-rianimazione-terapia intensiva del dolore, oltre a giocare un ruolo trasversale come medico del perioperatorio, può supportare il percorso terapeutico sia nelle fasi diagnostiche propedeutiche al trattamento, che nell’assistenza alla fragilità che molti di questi malati sviluppano e che richiede cure personalizzate. Anche l’intervento, di conseguenza, deve essere inserito in un contesto globale, programmato con tempi e modalità improntati alla massima efficacia e alla minima sofferenza, salvaguardando la sicurezza e definendo insieme alla persona in cura la compromissione tollerabile della qualità della vita, scelta del tutto personale”.
“L’infermiere di oncologia, nell’ultimo ventennio, ha vissuto un periodo di profonda e radicale trasformazione, passando dal ruolo di professione ausiliaria rispetto a quella medica fino ad acquisire una propria decisiva autonomia – afferma Alessio Piredda, Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche -. In oncologia, l’infermiere deve possedere notevoli capacità relazionali, comunicative e competenze altamente specialistiche. Siamo infatti a contatto con pazienti spesso fragili che presentano diversi bisogni, a partire dalla necessità di mantenere una qualità di vita soddisfacente”.
“Un ampio bacino di pazienti e il superamento delle soglie non rende automaticamente un ospedale virtuoso in termini di completezza e qualità assistenziali – conclude Fabrizio Nicolis -. Per garantire standard elevati, servono centri dotati di un team multidisciplinare composto da figure esperte. Solo così può nascere una medicina di eccellenza dai grandi volumi, che però ritorni alla dimensione dell’individuo, capace di formulare un piano di assistenza personalizzato, che dia spazio anche agli stili di vita che devono essere assunti almeno ‘prima’ di ogni intervento chirurgico oncologico programmato. Uno dei tanti problemi da affrontare riguarda, ad esempio, lo stato nutrizionale dei pazienti. Il successo della chirurgia oncologica non è esclusivamente correlato alla qualità ed efficacia del gesto chirurgico, ma anche alla capacità dell’organismo di reagire a questo trauma con un supporto nutrizionale adeguato. La malnutrizione del paziente sottoposto a chirurgia oncologica provoca un prolungamento della permanenza in ospedale dopo l’intervento, un aumento delle complicanze postoperatorie e della mortalità postoperatoria e, spesso, un ritardo nell’inizio di ulteriori terapie. Per questo, la valutazione preoperatoria dello stato nutrizionale e il supporto dietologico in preparazione, durante e dopo il ricovero sono alcuni dei fattori che determinano l’esito positivo delle cure”.