I ricercatori dell’Unità di Malattie dell’Invecchiamento dell’IRCCS Ospedale San Raffaele hanno scoperto un punto debole di queste cellule: fanno fatica a eliminare gli aggregati di proteine in eccesso, perché il meccanismo che dovrebbe occuparsene – l’autofagia, la cui scoperta si è guadagnata il premio Nobel nel 2016 – lavora sotto enorme sforzo in presenza della malattia. Lo studio, coordinato da Simone Cenci, spiega il successo di alcuni farmaci oggi utilizzati contro l’amiloidosi, che esasperano proprio il processo di smaltimento delle proteine. Inoltre potrebbe contribuire allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche, dato che ha permesso di mettere a punto il primo modello sperimentale della malattia. I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Blood.
Le cellule del nostro organismo si mantengono funzionanti non solo producendo le proteine di cui hanno bisogno, ma anche smontando e riciclando quelle che non sono più necessarie. Fino a una decina di anni fa si pensava che principale responsabile di questa attività di riciclo fosse il proteasoma, un organello con il compito di degradare le proteine sulle quali la cellula pone un’etichetta speciale, chiamata ubiquitina. Oggi sappiamo che esiste un’altra strategia di rimozione delle proteine in disuso: l’autofagia, un processo più drastico attraverso il quale una vescicola di membrana ingloba e degrada pacchetti di proteine o interi organelli cellulari.
L’unità di Malattie dell’Invecchiamento diretta da Simone Cenci ha recentemente svelato, per prima, il ruolo dell’autofagia nella produzione di anticorpi, e si interessa da tempo al ruolo dell’autofagia nelle plasmacellule malate, come le cellule tumorali del mieloma multiplo o quelle mutate che causano l’amiloidosi. «Bisogna immaginare che questi due meccanismi – il proteasoma e l’autofagia – collaborano all’interno delle cellule per mantenere l’equilibrio tra la sintesi di nuove proteine e la degradazione di quelle vecchie», spiega Simone Cenci. «Le plasmacellule hanno un carico di lavoro particolarmente gravoso. In presenza di malattie che alterano l’attività cellulare, come il mieloma multiplo o l’amiloidosi, l’equilibrio si rompe e il sistema di smaltimento dei rifiuti si trova sotto stress».
L’eccessivo carico di lavoro è un tallone d’Achille per le cellule. Ma tramite farmaci specifici si può intralciare ulteriormente l’attività di questi due meccanismi di pulizia interna e portare le cellule malate al collasso. È la strategia dei farmaci inibitori del proteasoma, la cui efficacia anti-tumorale è stata scoperta proprio contro il mieloma multiplo, ma che funzionano anche in molti pazienti affetti da amiloidosi, circa 6 su 10.
Per capire meglio il perché del funzionamento parziale di questi farmaci, Simone Cenci e colleghi hanno sviluppato una preziosa collaborazione con il Centro per lo Studio e la Cura delle Amiloidosi Sistemiche della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, diretto dal professor Giampaolo Merlini, tra i massimi esperti al mondo di questa malattia. Grazie a questa collaborazione i ricercatori hanno prelevato le plasmacellule responsabili dell’amiloidosi dal midollo osseo di numerosi pazienti e le hanno studiate, per la prima volta, con tecnologie d’avanguardia come la microscopia elettronica, l’immunofluorescenza e altre analisi molecolari. Così facendo hanno scoperto che in queste cellule è in realtà l’autofagia il meccanismo di riciclo sottoposto a maggiore stress. Il profilo cellulare e molecolare di tale stress in queste cellule da un lato spiega il successo dei farmaci inibitori del proteasoma e dall’altro indica nuove strade per la messa a punto di strategie terapeutiche ancora più efficaci.
Non solo, ma per ottenere questi risultati i ricercatori del San Raffaele hanno creato in laboratorio il primo modello cellulare dell’amiloidosi da catene leggere, ingegnerizzando cellule perché producessero gli stessi anticorpi anomali e tossici prelevati dai pazienti. «Considerata la rarità della malattia, questo modello sperimentale, ora a disposizione di tutti i laboratori del mondo, renderà lo studio dell’amiloidosi più accessibile e diffuso», conclude Simone Cenci. «Ci permetterà di identificare nuovi punti deboli delle cellule responsabili della malattia e di testare nuovi farmaci».
«Non è un caso che questa scoperta sia il frutto di una collaborazione fra due Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), sede privilegiata per lo sviluppo della ricerca traslazionale», commenta Giampaolo Merlini. «Infatti questo studio, oltre a chiarire aspetti fondamentali del meccanismo di malattia, apre la via per lo sviluppo di nuovi farmaci e loro combinazioni, e avvicina il traguardo della cura della amiloidosi da catene leggere».
Lo studio è stato possibile grazie al sostegno dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, di Fondazione Cariplo, del Ministero della Salute, di International Myeloma Foundation e di Multiple Myeloma Research Foundation.