I processi di crescita di un bambino durante i nove mesi di vita precedenti la nascita sono estremamente importanti per il suo sviluppo. Fattori di stress per la mamma durante la gravidanza o caratteristiche avverse per la crescita del feto possono esercitare un impatto significato sui percorsi di sviluppo dei primi anni di vita. Una delle complicazioni che può verificarsi nella vita antenatale è il ritardo di crescita intrauterino. Si tratta di una specifica condizione medica in cui il feto non riceve un adeguato apporto nutritivo nelle epoche di sviluppo fetale prestabilite e non cresce come dovrebbe. Questo svantaggio iniziale nella crescita, quando si verifica, avviene in una fase davvero sensibile per lo sviluppo dell’organismo umano ein particolare per la maturazione del cervello. La ricerca pubblicata sul «Journal of American Medical Association-Pediatrics» dal titolo “Association of Intrauterine Growth Restriction and Small for Gestational Age Status With Childhood Cognitive Outcomes. A Systematic Review and Meta-analysis”, coordinata dalla Dott.ssa Chiara Sacchi del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova e condotta in collaborazione con Alessandra Simonelli, Alessio Vieno e Claudia Marino dello stesso dipartimento, Silvia Visentin del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Ateneo patavino e Chiara Nosati del King’s College di Londra, ha esaminato l’associazione tra ritardo di crescita intrauterina e funzionamento cognitivo lungo i primi 12 anni di vita.
Per la prima volta lo studio meta-analitico padovano ha analizzato i risultati di 60 pubblicazioni scientifiche sull’argomento, edite tra il 2000 e il 2020, che hanno coinvolto 52.822 bambini tra 0 e 12 anni. Le ricerche prese in esame provengono da diverse aree geografiche e fotografano il follow up di questa condizione, il ritardo di crescita intrauterina, presente nel mondo in soggetti dagli 0 ai 12 anni. I ricercatori si sono chiesti cosa accada allo sviluppo cognitivo di questi bimbi dopo aver affrontato una condizione critica nelle primissime fasi di vita e se il ritardo di crescita in utero evidenzi la possibilità di un rischio cognitivo. I bambini con ritardo di crescita intrauterina, oggetto degli studi pubblicati negli ultimi venti anni, sono stati divisi in due classi: quelli nati a termine e quelli nati pretermine. La prematurità è, infatti,un fattore critico per lo sviluppo poiché l’individuo nasce prima della completa maturazione in utero. È perciò importante comprendere se il ritardo di crescita in utero si associ ad uno specifico funzionamento cognitivo sia nei bambini nati a termine, cioè in assenza di altre condizioni critiche, sia in quelli già potenzialmente vulnerabili. «Dall’analisi dei dati è emerso come i bambini nati correttamente nei nove mesi, ma con ritardo di crescita intrauterina, abbiano performance cognitive peggiori rispetto ai loro pari – si tratta in media di una differenza di 5 punti. Ugualmente i nati pretermine, sempre con ritardo di crescita, presentano punteggi cognitivi inferiori se confrontati con i loro pari nati pretermine ma senza ritardo di crescita – in questo caso con circa 4 punti di differenza in media – dice Chiara Sacchi -. Non solo, i nati prematuri con ritardo di crescita hanno fino a 1,6 volte in più di rischio di incorrere in un quoziente intellettivo borderline, ovvero un punteggio cognitivo inferiore di 1 deviazione standard dalla media, rispetto ai nati prematuri senza ritardo di crescita. Questo significa che, in un contesto di vulnerabilità quale quello della nascita prematura, il ritardo di crescita sembra portare un rischio cognitivo aggiuntivo. Un altro dato che emerge dallo studio – aggiunge Chiara Sacchi – è che, sia per i nati pretermine che per i nati a termine, l’associazione tra ritardo di crescita e sviluppo cognitivo rimane costante per i primi 12 anni di vita, ovvero la differenza di sviluppo tra questi bambini e i loro pari si trova trasversalmente negli studi condotti nelle diverse età. Ciò suggerisce che, in assenza di interventi ad hoc, questo potenziale gap cognitivo non si colma con lo sviluppo. Questi dati ci segnalano – conclude Chiara Sacchi – quanto sia importante dare attenzione ai processi di crescita in utero al fine di identificare precocemente traiettorie di rischio che possono essere contenute e/o modificate da interventi efficaci. I nostri risultati, infatti, sottolineano la necessità di individuare dei percorsi specifici a sostegno delle abilità cognitive di questi bambini a rischio fin dalle primissime fasi del loro sviluppo».