Una delle strategie terapeutiche più promettenti per i pazienti oncologici è costituita dalle terapie a bersaglio molecolare. Veicolando il farmaco in modo specifico alle cellule tumorali che portano in superficie un determinato bersaglio, tali terapie garantiscono una maggiore precisione e una minore tossicità rispetto alle chemioterapie tradizionali.

L’efficacia di queste terapie è però purtroppo limitata dallo sviluppo di tolleranze e resistenze da parte dei tumori, che possono così dare metastasi.

Lo sviluppo di metastasi e di resistenza alle terapie sono la principale causa di ricadute nei pazienti oncologici. In alcuni casi la recidiva è rapida, ed è dovuta ad alterazioni genetiche già esistenti nella massa tumorale prima della somministrazione del trattamento. In altri casi invece il tumore riappare dopo molto tempo, anche anni dopo la diagnosi, e non sappiamo come e perché. La capacità di prolungare l’efficacia di un trattamento è a oggi limitata dalla scarsa conoscenza dei molteplici meccanismi che portano allo sviluppo della resistenza.

Capire esattamente in che modo i tumori riescono ad opporre resistenza alle terapie è pertanto un quesito cruciale a cui rispondere per riuscire a sconfiggerli, rendendo le terapie a bersaglio molecolare più efficaci e offrendo ai pazienti qualità e aspettative di vita superiori. Un significativo passo avanti in questa direzione è stato segnato dai risultati di uno studio, appena pubblicati sull’autorevole rivista scientifica “Nature Genetics”. Lo studio è stato condotto in collaborazione a IFOM, all’Università di Torino, all’Università degli studi di Milano e al Candiolo Cancer Institute FPO IRCCS da ricercatori guidati dai Professori Marco Cosentino Lagomarsino e Alberto Bardelli grazie al sostegno di Fondazione AIRC e di un grant ERC dell’Unione europea.

Il gruppo interdisciplinare costituito da fisici e biologi ha investigato la resistenza alle terapie a bersaglio molecolare da un punto di vista quantitativo e con un approccio inedito che combina la matematica alla biologia. Più precisamente, grazie agli strumenti matematici le cellule tumorali sono state caratterizzate nelle loro diverse sottopopolazioni, raggiungendo eccezionali livelli di dettaglio e approfondimento. “Abbiamo adottato – illustra Marco Cosentino Lagomarsino, di IFOM e Università degli Studi di Milano – un metodo molto simile a quello originariamente utilizzato, nel 1943, da Salvador Luria e Max Delbrück per studiare lo sviluppo di resistenza nei batteri. Quell’esperimento pionieristico diede un impulso fondamentale alla moderna genetica sperimentale e si dimostrò cruciale allo sviluppo della biologia molecolare, al punto che i due scienziati ricevettero il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1969. Lo stesso approccio era però stato utilizzato finora in modo assai limitato nelle cellule umane, verosimilmente per la complessità e la durata degli esperimenti richiesti. Occorre infatti campionare e caratterizzare tantissime cellule, nel nostro caso ottenute da pazienti affetti da tumore al colon retto, sia durante il trattamento farmacologico che in condizioni normali di crescita.”

“I risultati ottenuti con gli esperimenti di laboratorio si sono arricchiti delle analisi matematiche e viceversa – spiega Alberto Bardelli –, e la collaborazione è stata essenziale per la buona riuscita di questo progetto. Da un lato le considerazioni teoriche preliminari basate sui modelli matematici ci hanno permesso di progettare gli esperimenti in maniera ottimale per i nostri scopi. Dall’altro, i risultati degli esperimenti di genetica e biologia molecolare ci hanno permesso di applicare modelli matematici per pensare a protocolli di trattamento innovativi, che possano in prospettiva portare a una riduzione della resistenza alle terapie”.

Cosa hanno evidenziato i ricercatori in laboratorio? “Abbiamo osservato – racconta Mariangela Russo, prima autrice dell’articolo, dell’Università di Torino e Candiolo Cancer Institute – che le terapie a bersaglio molecolare inducono nelle cellule tumorali la transizione a uno stato di letargo, rendendole in grado di tollerare temporaneamente il trattamento. Queste cellule, chiamate appunto “persistenti”, essendo tolleranti alla terapia, hanno potenzialmente tempo di acquisire mutazioni genetiche che le rendono in grado di replicarsi in presenza del farmaco, causando così una recidiva di malattia. I nostri studi ci hanno permesso di capire che la terapia induce un aumento significativo della capacità di mutare delle cellule persistenti: non solo le cellule tumorali persistenti hanno del tempo per sviluppare mutazioni a loro favorevoli, ma la terapia rende questo processo più veloce.”

Quali risposte hanno fornito i modelli matematici? “Avvalendoci degli strumenti forniti dalla fisica teorica, siamo stati in grado di tradurre gli esperimenti eseguiti in laboratorio in un linguaggio matematico” – riferisce Simone Pompei di IFOM, che è co-primo autore dell’articolo e ha sviluppato i modelli matematici utilizzati –. “Questi strumenti hanno permesso di interpretare e predire con maggiore precisione il comportamento delle cellule tumorali durante i trattamenti. Abbiamo così potuto quantificare la capacità delle cellule tumorali di diventare persistenti e di riuscire in seguito a sviluppare mutazioni genetiche che comportano resistenza alle terapie. In questo modo abbiamo calcolato che le cellule persistenti mutano fino a 50 volte più velocemente delle cellule tumorali. Questo significa che le cellule persistenti, anche se presenti in piccolo numero, comportano un’alta probabilità di recidiva.”

“Oltre a portare una maggiore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della resistenza alle terapie – concludono Cosentino-Lagomarsino e Bardelli – i risultati ottenuti nello studio aprono a nuove possibilità per prevenire l’insorgere della resistenza e impedire lo sviluppo di metastasi. In prospettiva, dal punto di vista molecolare, si potrebbe agire sui meccanismi che portano le cellule tumorali ad aumentare il proprio tasso di mutazione, possibilmente impedendo tale incremento. I dati preliminari di esperimenti in corso sembrano promettenti. Anche dal punto di vista dei modelli matematici, il potenziale aperto dai risultati dello studio sono estremamente promettenti e nel tempo potrebbero portare a trattamenti mirati e calibrati su ciascun tumore e paziente. Guidati da modelli matematici, i medici potrebbero modulare le dosi e i tempi di somministrazione dei farmaci antitumorali in modo da minimizzare la probabilità di recidiva di malattia.” Il prossimo passo che vedrà impegnati i ricercatori sarà di trasferire il protocollo – per ora applicato solo a linee cellulari – a esperimenti preclinici più significativi, come colture cellulari in tre dimensioni derivate da campioni tissutali ottenuti da pazienti.