Nuovi dati dimostrano i benefici di ibrutinib nel trattamento di prima linea della leucemia linfatica cronica
Sono numerosi e interessanti i nuovi dati relativi a ibrutinib, il primo antitumorale orale della classe degli inibitori della tirosin-chinasi di Bruton per il trattamento di pazienti adulti con leucemia linfatica cronica, presentati da Janssen al congresso 2020 dell’American Society of Hematology.
L’analisi integrata di due studi con un follow-up a lungo termine a 79 mesi, ha mostrato risultati comparabili nella sopravvivenza libera da progressione e nei tassi di risposta complessiva, tanto in pazienti con caratteristiche di alto rischio genomico, quali delezione di 17p o mutazione di TP53 o mutazione di BIRC3, quanto in pazienti privi di tali caratteristiche. Inoltre, ha evidenziato vantaggi significativi per entrambi i parametri dall’impiego di ibrutinib rispetto alla terapia a base di clorambucile, indipendentemente dal rischio genomico. A 42 mesi, i tassi PFS sono significativamente maggiori in tutti i gruppi ad alto rischio trattati in prima linea con ibrutinib rispetto a quelli in cura con clorambucile. A una mediana di durata di trattamento con ibrutinib di 35,7-43,8 mesi non si riscontrano differenze di eventi avversi di ogni grado o di grado 3 o maggiore in tutti i gruppi ad alto rischio, rispetto alla popolazione complessiva in esame.
Una seconda analisi combinata di quattro studi, con una mediana di follow-up di oltre 4 anni su 89 pazienti con LLC ad alto rischio per mutazione di TP53, ha evidenziato l’efficacia sostenuta di ibrutinib, inclusa la PFS, suggerendo che il farmaco migliori significativamente la prognosi infausta in questa popolazione ad alto rischio. A 48 mesi, la PFS è 79 per cento e la sopravvivenza complessiva 88%, tra i pazienti ad alto rischio trattati in monoterapia. Inoltre, il 46% dei pazienti con mutazione di TP53 rimane in trattamento con ibrutinib e il 39% mostra risposta completa. In questa analisi non si è rilevato alcun nuovo evento avverso e, in generale, i tassi di AE di grado 3 o superiore sono diminuiti dopo il primo anno di trattamento.
“Questi grandi set di dati combinati contribuiscono a raccogliere prove a sostegno dei significativi vantaggi clinici derivanti dall’impiego di ibrutinib in prima linea nel trattamento della leucemia linfatica cronica”, ha affermato Craig Tendler, Vice President, Late Development and Global Medical Affairs, Oncology, Janssen Research & Development. “Dalla sua prima approvazione in Europa nel 2014, ibrutinib ha ridefinito il paradigma di trattamento di questa malattia e queste analisi offrono ulteriori evidenze dei suoi benefici e sicurezza per i pazienti”, ha aggiunto Catherine Taylor, Vice President, Medical Affairs Therapeutic Area Strategy, Europe, Middle East and Africa, Janssen-Cilag Ltd., Middle East.
All’ASH 2020, sono stati presentati anche i dati dello studio di fase 2 CAPTIVATE, volto a valutare, in pazienti adulti di età inferiore ai 70 anni, anche ad alto rischio, il ruolo di efficacia e sicurezza della combinazione ibrutinib più venetoclax nel trattamento della LLC. Lo studio CAPTIVATE prevede l’arruolamento in due coorti: una in cui la durata del trattamento è guidata dal valore di MRD dopo 12 cicli di terapia con venetoclax e ibruitnib in combinazione e una seconda coorte, a durata fissa, in cui i pazienti interrompono la terapia dopo i 12 cicli di trattamento, indipendentemente dal valore di MRD.
I pazienti della prima coorte, che hanno raggiunto una uMRD nel sangue e nel midollo osseo, sono stati successivamente randomizzati in doppio cieco per continuare il trattamento con ibrutinib in monoterapia o placebo, fino a progressione della malattia. I risultati hanno dimostrato come nei pazienti con malattia minima residua non rilevabile, la sopravvivenza libera da malattia a un anno non è significativamente diversa fra coloro che hanno ricevuto il placebo rispetto a quelli trattati con ibruitinib.
I pazienti che non hanno raggiunto la uMRD dopo 12 cicli, sono stati invece randomizzati a riceve ibrutinib in monoterapia o in combinazione con venetoclax. Con una durata complessiva mediana di trattamento di 28,6 mesi con ibrutinib e 12 mesi con venetoclax, si è ottenuto con la terapia di combinazione una maggiore percentuale uMRD rispetto alla monoterapia con ibrutinib. In tutti e quattro i gruppi di trattamento, la sopravvivenza libera da progressione a 30 mesi era uguale o superiore al 95%.
Il profilo di sicurezza della combinazione ibrutinib più venetoclax si è dimostrato consistente con quelli noti per entrambi i farmaci. Gli eventi avversi più comuni di grado 3 o 4 sono stati neutropenia, ipertensione, trombocitopenia e diarrea.
“Questi dati dimostrano il potenziale, nel trattamento di prima linea della leucemia linfatica cronica, di questa associazione per via orale, da somministrarsi una volta al giorno, senza ricorrere alla chemioterapia”, ha commentato William Wierda, Professor, Department of Leukaemia, University of Texas MD Anderson Cancer Center, coordinatore dello studio. “Il trattamento con ibrutinib è indubbiamente lo standard di cura nella leucemia linfatica cronica e gli ultimi risultati dello studio CAPTIVATE sottolineano che la sinergia tra ibrutinib e venetoclax garantisce remissioni profonde della MRD nel sangue e nel midollo osseo e consente ai pazienti periodi senza trattamento”.
Oltre ai dati su pazienti in contesto di sperimentazione clinica, Janssen ha, infine, presentato i dati di uno studio real-world in pazienti con LLC. Si tratta di un’analisi retrospettiva statunitense che descrive i modelli di cura e valuta il tempo al trattamento successivo in pazienti trattati, in prima linea, con ibrutinib o chemioimmunoterapia. In questo studio, il più grande del suo genere sino ad oggi, i pazienti con LLC ad alto rischio trattati con ibrutinib in monoterapia hanno avuto un TTNT significativamente più lungo rispetto ai pazienti trattati con CIT e ibrutinib ha anche fornito un beneficio clinico duraturo, indipendente dallo stato di rischio, coerentemente con i risultati degli studi clinici.
“I risultati dell’analisi dei due studi di prima linea che prendono in considerazione i pazienti ad alto rischio confermano l’elevata efficacia di ibrutinib in questa popolazione e la possibilità di ottenere anche in questi pazienti una prolungata sopravvivenza libera da progressione”, ha affermato Alessandra Tedeschi, Dirigente medico struttura complessa di ematologia, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda. “Soprattutto viene confermata l’importanza del trattamento con l’inibitore del BTK nei pazienti che mostrano una mutazione della TP53 e/o del(17p). Peraltro, a lungo termine non vengono rilevate nuove tossicità emergenti. Ibrutinib è ormai inoltre un farmaco chiave nelle strategie terapeutiche con schemi a durata fissa. L’attività sinergica con venetoclax nello studio CAPTIVATE permette di ottenere risposte profonde con malattia minima residua non identificabile tali anche da permettere una interruzione del trattamento”, ha concluso Tedeschi.