Team di ricerca dell’Università di Padova, coordinato da Vincenzo Amendola del Dipartimento di Scienze Chimiche, ha pubblicato su «ACS Nano» un articolo in cui si spiega come nanoparticelle inorganiche a base di una lega di oro e ferro, due elementi biocompatibili e quindi particolarmente adatti per applicazioni in ambito biomedico, riescano a biodegradarsi spontaneamente negli organismi viventi.
Per comprendere lo studio dal titolo “4D Multimodal Nanomedicines Made of Nonequilibrium Au–Fe Alloy Nanoparticles”, coordinato da Vincenzo Amendola, Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova, e che ha per prime firme Veronica Torresan e Daniel Forrer del medesimo Dipartimento, è possibile ricorrere alla metafora di un “cacciatore” di comete. Immagiamo appunto una cometa: un ammasso di gas congelati che passa vicino alla Terra ad alta velocità e il cui destino è di evaporare gradualmente fino a scomparire. Da un lato non è facile catturarne una, dall’altro non si ha poi così tanto tempo per osservarla essendo in dinamica e rapida trasformazione. Ora si pensi a un ricercatore “cacciatore” che ha a che fare con una cometa microscopica composta di elementi della tavola periodica che non si amano molto, cioè il cui destino è quello di separarsi nello spazio e dissolversi in ambienti biologici. Esiste un momento, prima della dissoluzione, in cui gli elementi sono “intrappolati” in quella che viene chiamata nanoparticella in stato di non equilibrio. Dal momento che questa nanoparticella metastabile cambia nel tempo, non è sufficiente fornire la sua composizione e le dimensioni in un dato momento, ma si dovrebbe anche sapere come potrebbe cambiare in futuro o come è appena mutata. Si può dunque definire come un nanosistema 4D, dove alle tre dimensioni tradizionali si aggiunge quella del tempo.
Sì, ma in che campo tornerebbe utile? L’articolo “4D Multimodal Nanomedicines Made of Nonequilibrium Au–Fe Alloy Nanoparticles” pubblicato su «ACS Nano» pone in luce come la possibilità di catturare queste “nano-comete 4D” sia fondamentale nel campo della nanomedicina, specialmente per la diagnosi e il trattamento del cancro. In questo ambito le nanoparticelle riescono ad essere efficaci perché riescono a centrare il loro bersaglio senza la necessità di sovradosaggi, ai quali sono associati pericolosi effetti collaterali. Tuttavia, tendono a permanere nell’organismo per un tempo indefinito, con importanti rischi per la salute dei pazienti. Idealmente quindi, le nanomedicine dovrebbero comportarsi come un materiale 4D, sviluppando nanoparticelle per la diagnosi e la terapia del cancro che abbiano come requisito principale la capacità di biodegradarsi, di non accumularsi nel corpo, limitandone in questo modo gli effetti collaterali.Lo studio ha dimostrato, dopo due anni di lavoro, come le nanoleghe metastabili a base di oro-ferro potrebbero essere le candidate ideali allo scopo.
«Attualmente – spiega Vincenzo Amendola, docente del dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova e coordinatore dello studio – non si usano nanomateriali come agenti di contrasto, ma composti molecolari. Per quanto riguarda la risonanza magnetica nucleare si usano dei chelati di gadolinio, che però possono accumularsi nei tessuti e stimolare delle risposte immunitarie o di tipo allergico. Hanno una bio-persistenza limitata nel tempo e quindi costringono gli operatori a somministrare dosi molto elevate con possibili effetti collaterali a carico, per esempio dei reni, dove questi composti si accumulano prevalentemente nelle primissime ore dopo la somministrazione. C’è una casistica piuttosto importante di effetti collaterali legati all’accumulo degli agenti di contrasto molecolari utilizzati in clinica. Per i nanomateriali studiati come alternative il problema è opposto, dato che tendono ad accumularsi nell’organismo e restare lì per un tempo indefinito. Noi ci siamo concentrati su nanomateriali 4D, che possiedono la capacità di cambiare forma, dimensione e struttura nel tempo e sono in grado di degradarsi e scomparire spontaneamente dopo l’uso. Ebbene – conclude Amendola – abbiamo dimostrato sperimentalmente che le nanoparticelle di leghe oro-ferro contenenti i due elementi in proporzioni di “non-equilibrio” possiedono tali caratteristiche».
La ricerca, partita da un’indagine teorico-computazionale, ha mostrato come gli atomi di oro e ferro, due elementi biocompatibili e quindi particolarmente adatti per applicazioni in ambito biomedico, debbano disporsi all’interno delle nanoparticelle perché queste ultime si biodegradino spontaneamente negli organismi viventi. La chiave di tutto lo studio è stato trovare un modo per “costringere” ferro e oro a coesistere in proporzioni che in natura non sono praticabili. Per questo scopo, sono state usate tecniche di sintesi laser in liquido per produrre nanoparticelle bimetalliche di lega Au-Fe capaci di biodegradarsi. Queste nanoparticelle metastabili sono state testate anche in vivo e hanno dimostrato di abbandonare l’organismo dopo un periodo non eccessivamente lungo, al contrario di altre nanoparticelle a base solo di oro o solo di ossido di ferro che invece tendono a persistere per tempi molto più lunghi.
«Avere un nanomateriale di questo tipo da utilizzare come agente di imaging multimodale – dice Veronica Torresan, del Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università di Padova e prima autrice dello studio – è particolarmente importante a livello clinico, perché può essere ridotta la dose somministrata al paziente e anche i tempi di attesa nell’imaging stesso, fondamentale soprattutto nel trattamento del tumore in cui i tempi sono decisivi».