Le impressioni del clinico a colloquio con il paziente schizofrenico
Il termine “schizofrenia”, la cui etimologia deriva dal greco antico e significa “mente divisa”, fu coniato per la prima volta nel 1908 dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler. In realtà, la schizofrenia, prima di Bleuler, era ben nota nella storia e nella letteratura, seppure rappresentata da una semantica volta per lo più a mettere in risalto l’alienazione dalla realtà e le bizzarrie comportamentali, – basti pensare all’Orlando Furioso e al Don Chisciotte. Prima di Bleuler, lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin aveva chiamato nel 1891 i quadri clinici assimilabili a schizofrenia con il termine di dementia praecox, con il quale aveva inteso indicare una netta demarcazione con le forme dell’adulto e dell’anziano descritte dal suo collega e amico Alois Alzheimer. Kraepelin mise in risalto così due fondamentali elementi clinici della schizofrenia: l’esordio in età giovanile e la progressiva tendenza al deterioramento delle funzioni cognitive e del funzionamento sociale, proprio come nella demenza di Alzheimer. Tuttavia, giova ricordare che la schizofrenia si caratterizza anche per i disturbi delle percezioni e i disturbi del pensiero; i primi sono dati dalle allucinazioni, per lo più uditive (le “voci”), i secondi dai disturbi del contenuto del pensiero (i deliri), e dai disturbi della forma del pensiero.
Il colloquio con il paziente schizofrenico necessita di una cassetta attrezzi ben fornita di strumenti, quale l’osservazione oggettiva dei sintomi e la loro interpretazione psicodinamica, l’empatia, intesa come immedesimazione nella fenomenologia psicopatologica. E, a proposito di approccio fenomenologico, vale la pena di ricordare che Karl Jaspers, rinnegando la necessità di spiegare, aveva propugnato l’arte di comprendere, di immedesimarsi empaticamente con il paziente. Tuttavia, se è possibile da una parte accedere ai vissuti del soggetto nevrotico, è invece di estrema difficoltà comprendere e immedesimarsi nei deliri dello schizofrenico, riconducendoli ai propri dati esperienziali. Pur nella estrema variabilità psichica interindividuale, in cui ciascuno di noi è universo a sé stante, colpisce il clinico la stereotipata ricorrenza dei contenuti dei deliri e delle allucinazioni nello schizofrenico, come se ciascun paziente attingesse a un serbatoio comune, impoverendosi proprio della sua stessa individualità. Pertanto capita di ascoltare, da soggetti schizofrenici di diversa estrazione culturale, sociale e razziale, tematiche simili o esemplificabili nella stessa matrice psicopatologica dell’influenzamento e della perdita dei confini dell’io: microspie nascoste nei denti che captano il pensiero, il vicino di casa che legge nella mente, voci che pilotano i movimenti e che determinano l’agire. E’ quello che succede al neurologo quando ad esempio visita un paziente con un ictus e riscontra i soliti segni clinici: una paralisi, un segno di Babinski, un’accentuazione dei riflessi osteotendinei nel lato interessato; con la differenza che, mentre il neurologo trova conforto nella dimostrazione alla TAC encefalo di una localizzata lesione cerebrale, quali strumenti ha a disposizione lo psichiatra per spiegare la stereotipata ricorrenza dei sintomi, visto che non può comprenderli attraverso soggettivi vissuti personali, e visto che si trova solitamente di fronte a una normalità degli esami strumentali? Ecco che ritorna la metafora della cassetta attrezzi ricolma di utensili variegati. Una chiave molto efficace ci viene fornita ad esempio dall’approccio di Carl Gustav Jung alle psicosi schizofreniche; lo psichiatra svizzero, allievo di Bleuler, da giovane seguace e poi antagonista di Freud, aveva teorizzato l’inconscio collettivo come l’elemento uniformante e accomunante il genere umano; gli uomini di tutti i tempi e di tutte le epoche attingono agli archetipi dell’inconscio collettivo, quegli stessi che emergerebbero in modo quasi immutabile nelle psicosi schizofreniche, come se fossero stati disinibiti ed estratti dalla scatola nera che, come retaggio ancestrale, li racchiude fin dalla nascita. Sarà oggi compito della psichiatria organicistica e delle neuroscienze trovare le reti neurali nelle quali si annida questa scatola nera.
Aldo Nocchiero