Dal lavoro senza sosta dei reparti intensivi dedicati all’epidemia, emergono nuove evidenze sull’identikit dei pazienti COVID-19 con le forme più gravi di malattia e nuove soluzioni per aiutarli.
Dall’inizio della pandemia, sono stati seguiti oltre 120 pazienti COVID-19 nei reparti di terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele. Questo ha permesso a medici e ricercatori in prima linea di osservare le caratteristiche di molti pazienti, di proporre nuove tecniche e trattamenti che potrebbero migliorare il loro decorso e di aggiungere importanti tasselli per la comprensione di una patologia insidiosa.
Dai lavori scientifici pubblicati, accanto a terapie innovative e a nuovi stratagemmi per ridurre il bisogno dei ventilatori, emergono anche dati che raccontano una delle mortalità più basse per pazienti COVID-19 in terapia intensiva, a dimostrazione dell’eccellenza medico-scientifica delle unità di Anestesia e Rianimazione dirette dal professor Alberto Zangrillo e del Centro di Ricerca in Anestesia e Terapia Intensiva diretto da Giovanni Landoni.
L’età media è 61 anni, il sesso maschile. Tra le patologie più frequenti ci sono ipertensione, cardiopatie e diabete. È questo l’identikit dei pazienti ricoverati in terapia intensiva per le forme più gravi di COVID-19, quelle che richiedono la ventilazione meccanica.
Il quadro emerge da uno dei primi studi clinici osservazionali dedicati esclusivamente ai pazienti in terapia intensiva, pubblicato sulla rivista “Critical Care and Resuscitation” e realizzato nei reparti COVID-19 dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
Se è vero che dopo venti giorni di follow-up il 23% dei pazienti ricoverati è deceduto e il 45% è ancora intubato, è anche vero che il 32% è stato dimesso dalla terapia intensiva. Il che significa che anche dalle forme più gravi di COVID-19 si può guarire.
“La prima cosa che osserviamo sono i lunghi tempi di degenza in ventilazione assistita, una condizione che mette naturalmente sotto stress tutto il sistema. Ciò nonostante, se si dà il tempo giusto ai pazienti, una percentuale importante di questi riescono a guarire anche in assenza di terapie mirate per questa patologia – spiega Giovanni Landoni -.
I fattori che predicono gli esiti positivi sono fondamentalmente dati dalla giovane età e dall’assenza di ipertensione. Anche una buona risposta iniziale in termini di ossigenazione del sangue può essere il segno di una futura guarigione.”
I pazienti sono trattati, oltre che con antivirali e immunosoppressivi in via sperimentale, con anti coagulanti per ridurre il rischio di eventi trombotici, che sembrano giocare un ruolo importante nelle fasi più avanzate della patologia.
Tra i farmaci impiegati sui pazienti più critici c’è anche, per la prima volta in Europa, l’Angiotensina II, un vasocostrittore già impiegato in terapia intensiva negli stati Uniti, ma in contesti diversi.
“L’Angiotensina II – osserva Landoni – è particolarmente indicata per COVID-19 perché agisce sullo stesso recettore impiegato dal virus per entrare nelle cellule, ACE2, e potrebbe dunque avere anche un’azione antivirale”.
Uno studio in corso di pubblicazione sulla rivista Critical Care dagli intensivisti del San Raffaele suggerisce la sua efficacia sui pazienti COVID-19: su 16 trattati, 14 hanno avuto un miglioramento nell’ossigenazione.
“Al San Raffaele stiamo studiando anche il beneficio di supporti meno invasivi alla respirazione nelle fasi precoci della malattia, quando i pazienti sono ancora ricoverati nei reparti classici. I dati sembrano suggerire che il loro impiego preventivo potrebbe alleggerire la pressione sui reparti di terapia intensiva” spiega Giovanni Landoni.
Un recente studio pubblicato sulla prestigiosa JAMA dal gruppo di Zangrillo e Landoni, riporta il beneficio della tecnica di pronazione anche nelle fasi iniziali della malattia, nei casi, cioè, in cui i malati non sono ancora intubati ma sono supportati semplicemente dalla ventilazione non invasiva.
Durante la pronazione i pazienti vengono posizionati “a pancia in giù” per cercare di reclutare zone del polmone precedentemente non raggiunte dalla ventilazione. È una tecnica che si utilizza in terapia intensiva solitamente a seguito dell’intubazione e a fronte di una ossigenazione insufficiente.
“Sono stati analizzati i parametri respiratori in 15 pazienti in pronazione e nella maggior parte dei casi abbiamo potuto riscontrare un netto miglioramento. Sebbene siano dati preliminari e su un piccolo numero, i risultati ottenuti ci incoraggiano lungo questa strada” conclude Landoni.