Efficacia del supporto respiratorio extracorporeo nelle terapie intensive: il confronto tra pazienti Covid e quelli affetti da influenza A H1N1
Sono stati pubblicati sulla rivista scientifica internazionale “Critical Care” i risultati di uno studio multicentrico nazionale, che ha confrontato la sopravvivenza dei pazienti trattati con supporto respiratorio extracorporeo per insufficienza respiratoria causata da polmonite COVID-19 con quella osservata in un precedente gruppo di pazienti sottoposto ad analogo supporto a causa di Influenza A H1N1.
Lo studio, che è stato coordinato dal professor Vito Fanelli, afferente al gruppo di ricerca della Terapia Intensiva universitaria dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino, diretta dal professor Luca Brazzi, ha visto la partecipazione di sette terapie intensive italiane ed ha portato all’arruolamento di oltre 300 pazienti caratterizzati da una compromissione della funzione respiratoria tanto grave da rendere necessario il ricorso alla tecnica ECMO per garantire livelli di ossigenazione necessari alla sopravvivenza. Questo perché purtroppo le attuali terapie non sono sufficienti in alcuni pazienti a supportare la funzione respiratoria, a causa del grave danno polmonare indotto dai virus.
I ricercatori si sono concentrati sul capire se esistesse un diverso rischio di morte dei malati con polmonite da COVID o da Influenza A H1N1 e se questo fosse dovuto ad una diversa azione lesiva dei due virus sul polmone o se invece intervenissero altri fattori, legati alla storia clinica dei pazienti.
È stato osservato che la mortalità dei pazienti in cui l’insufficienza respiratoria è causata da COVID-19 è maggiore del 20% rispetto a quella osservata nel gruppo di pazienti in cui l’insufficienza respiratoria è stata indotta da influenza A H1N1. Tra le ragioni alla base di tale differenza ci sono l’età più avanzata ed il maggior numero di giorni trascorsi in ospedale prima dell’inizio dell’ECMO, osservata nel gruppo di pazienti affetti da polmonite COVID-19.
L’importanza di questi risultati, relativi alla prima ondata della pandemia COVID-19, ha permesso ai medici di capire quale sia la tempistica più corretta nell’offrire la terapia di supporto extracorporeo ECMO e quali siano i malati che possano più beneficiarne. Infatti il rischio di morte si riduce per pazienti di età inferiore ai 65-70 anni e con degenza in terapia intensiva prima dell’inizio dell’ECMO inferiore a 7-10 giorni.
La ricerca ha permesso di confermare non solo l’importanza di un team interdisciplinare di centri ad alta specializzazione, costituito da anestesisti rianimatori, cardiochirurghi, perfusionisti, infermieri e volontari del soccorso per garantire l’applicazione di una tecnica che si dimostra sempre più efficace nel trattamento dei quadri più severi di insufficienza respiratoria, ma anche, e soprattutto, l’importanza di una identificazione precoce dei pazienti, che potrebbero beneficiare di tale tecnica di supporto al fine di limitare i danni che il prolungato ricorso a tecniche di ventilazione meccanica artificiale possano indurre.
Un’ennesima dimostrazione di quanto la ricerca clinica svolta negli ospedali universitari pubblici sia efficace nel produrre evidenze con importanti ricadute in termini di avanzamento tecnologico dei trattamenti e contenimento dei costi in ambito sanitario.