Un livello particolarmente basso di antitrombina riscontrato nei pazienti obesi affetti da coronavirus spiegherebbe il fallimento della terapia con eparina somministrata per scongiurare la trombosi venosa e l’embolia polmonare, prime cause di mortalità legata all’infezione da COVID-19.
Questo il risultato di uno studio, pubblicato sulla rivista “Nutrition, Metabolism and Cardiovascular Diseases“, condotto da un team di ricercatori dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano guidati dal dottor Carmine Gazzaruso – Responsabile delle Unità Operative di Diabetologia, Endocrinologia, Malattie Metaboliche e Vascolari – che ha visto coinvolti 49 pazienti ricoverati per Covid-19.
I ricercatori sono partiti da una prima evidenza: nonostante l’anticoagulazione, gestita principalmente con eparina, la mortalità per eventi tromboembolici rimaneva comunque alta. All’interno del campione, infatti, 16 pazienti non erano sopravvissuti alla malattia.
I ricercatori si sono quindi concentrati nell’individuazione di eventuali fattori comuni a tutti i soggetti, che potessero chiarire le motivazioni del fallimento della terapia.
Il primo elemento riscontrato nei 16 pazienti era il livello basso di antitrombina, rispetto alla normalità. L’antitrombina è una proteina prodotta dal fegato, necessaria per il funzionamento dell’eparina.
Altro comune denominatore era il BMI superiore a 30, quindi un grado di obesità da lieve a severa, che si rivelerebbe pertanto un fattore prognostico negativo.
Questa evidenza sottolineava come i soggetti obesi, che molti studi epidemiologici hanno identificato come i profili a più alto rischio di ricovero in terapia intensiva e di morte tra i malati di COVID-19, siano i più colpiti dalla carenza di antitrombina.
“I dati suggeriscono innanzitutto come un basso livello di antitrombina sia fortemente associata alla mortalità nei pazienti affetti da Covid-19. Inoltre, l’AT può essere ciò che lega l’obesità e la prognosi infausta nei pazienti con coronavirusv – afferma il dottor Carmine Gazzaruso -. Il nostro studio apre la strada ad altre ricerche relative all’antitrombina, che può diventare un marcatore prognostico e un bersaglio terapeutico per la cura del COVID-19”.
L’indagine si rivela quindi preziosa perché può fornire valide indicazioni in merito alle future terapie anti-coronavirus, come: la supplementazione di antitrombina concentrata in una fase precoce della malattia; l’impiego di plasma fresco concentrato, non necessariamente iperimmune, ricco anch’esso di antitrombina e più facilmente reperibile.
Lo studio suggerisce anche l’utilizzo di anticoagulanti alternativi all’eparina, che aggirino quindi la problematica relativa alla carenza di antitrombina.
“Mi auguro che i risultati e le indicazioni contenute nel nostro lavoro possano essere utili per quei Paesi in cui il COVID-19 si sta manifestando in tutta la propria potenza, ma anche per l’Italia affinché possa trovarsi preparata di fronte a un’eventuale nuova emergenza” conclude il dottor Gazzaruso.