È noto che i fattori biologici legati al sesso e quelli psico-socio-culturali, riconducibili al genere di un individuo possono influenzare il rischio di sviluppare malattie infettive e la loro prognosi. La pandemia da COVID-19 non sembra fare eccezione.

Proprio alla migliore comprensione di tale associazione ha lavorato un team multidisciplinare formato da esperti di medicina di genere, epidemiologi, sociologi, informatici, biostatistici, medici e infermieri, provenienti da Canada, Austria, Svezia, Spagna e Italia, fra i quali Valeria Raparelli del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza. 

Nel lavoro pubblicato sulla rivista “Canadian Medical Association Journal”, i ricercatori hanno utilizzato dati provenienti da 33 diversi paesi per indagare l’influenza del sesso biologico e dei fattori genere-correlati sul numero di casi e di morti per COVID-19, giungendo a dimostrare come le norme e i modelli sociali, culturali ed economici all’interno di un paese possano influenzare il rischio di esposizione all’infezione e l’opportunità di ricevere i test diagnostici.

La disuguaglianza di genere è stata “misurata” attraverso un insieme di indicatori, il cosiddetto United Nations Development Project’s Gender Inequality Index, per identificare quei paesi in cui le disparità tra uomini e donne sono più accentuate. Qui i maschi rappresentano il numero maggiore dei casi confermati di infezione SARS-Cov-2, confermando una stretta associazione tra la diseguaglianza di genere e il rapporto dei casi maschi/femmine. 

“Nel contesto di una pandemia – conclude Valeria Raparelli – questo tipo di considerazione è cruciale per pianificare al meglio la gestione del prossimo futuro, per comprendere meglio questo evento senza precedenti sul piano biologico e sociale e per contrastare con interventi mirati la pandemia”.

Lo studio è stato sviluppato nell’ambito delle attività del progetto di medicina personalizzata GOING-FWD.