Lettere, sillabe, parole, frasi: insiemi di simboli messi in fila che, quando leggiamo, si riempiono di significato. Ma esistono nel nostro cervello un’area e un meccanismo esclusivamente deputati alla lettura? Probabilmente no; il linguaggio scritto è un’invenzione troppo recente perché il cervello abbia sviluppato strutture specificamente dedicate ad esso. Secondo quanto emerso da una recentissima ricerca, pubblicata sulla rivista Current Biology, per svolgere questo raffinato compito mettiamo in campo una funzione evolutivamente antica più generalmente utilizzata per l’elaborazione di molti altri stimoli visivi. Per provarlo, i ricercatori della SISSA, autori dell’indagine, hanno sottoposto dei volontari a una serie di esperimenti in cui venivano loro mostrati diversi simboli e immagini, alcuni molto simili a parole, altri in forma di oggetti tridimensionali o del tutto astratti. I risultati hanno dimostrato che non c’era alcuna differenza tra il modo in cui i partecipanti imparavano a riconoscere gli uni e gli altri. Secondo gli studiosi, questi dati suggeriscono che per leggere utilizziamo lo stesso approccio che mettiamo in campo per muoverci nel mondo attraverso le nostre esperienze visive: semplicemente riconosciamo delle caratteristiche -forme, dimensioni, strutture e, sì, anche lettere e parole –e ne catturiamo le statistiche: quante volte occorrono, quanto spesso si presentano insieme, quanto bene le une predicono la presenza delle altre. Grazie a questo sistema, sulla base della frequenza statistica di specifici simboli, siamo così in grado di riconoscere i segni ortografici, comprenderli e immergerci così nel piacere della lettura.La lettura è un’invenzione culturale, non un’acquisizione evolutiva“Scrittura e lettura sono apparse circe 5000 anni fa, non c’è stato il tempo evolutivo per mettere a punto un sistema ad hoc” spiegano Yamil Vidal e Davide Crepaldi, rispettivamente primo autore e coordinatore della ricerca, a cui hanno contribuito anche Eva Viviani, dottoranda alla SISSA e ora post-doc all’università di Oxford, e Davide Zoccolan, coordinatore del Visual Neuroscience Lab, sempre alla SISSA. “”Eppure, una parte della nostra corteccia sembrerebbe specializzata per la lettura: quando siamo di fronte a un testo, una specifica parte della corteccia, il giro fusiforme sinistro, si attiva per svolgere questo specifico compito. Questa stessa area è peraltro implicata nel riconoscimento visivo degli oggetti, e dei volti in particolare”. D’altra parte, spiegano gli scienziati, “vi sono animali come i babbuini che possono imparare a riconoscere visivamente delle parole, il che suggerisce che alla base di questo processo vi sia un sistema non specifico per il linguaggio, già esistente e meno specializzato, che viene “riciclato” a questo scopo”. Pseudocaratteri, oggetti 3D e forme astratte per provare la teoriaCome fare a far luce su questo interrogativo? “Noi siamo partiti da un presupposto: se la nostra teoria è vera, posti nelle stesse condizioni sperimentali alcuni effetti che si verificano quando siamo posti di fronte a segni ortografici si dovrebbero ritrovare anche quando siamo sottoposti a stimoli non ortografici. Ed è proprio quello che abbiamo provato con questo studio”.Nella ricerca, i volontari sono stati sottoposti a 4 diversi test: nei primi due venivano loro mostrati brevi “parole” composte da pochi pseudocaratteri, simili a numeri o a lettere, ma con nessun significato reale. Questo, spiegano gli studiosi, per evitare che i partecipanti, tutti adulti, fossero influenzati nella performance dalle loro conoscenze pregresse. “Quello che abbiamo riscontrato è che i volontari imparavano a riconoscere i gruppi di lettere sulla base della frequenza delle loro parti: tanto più le coppie di simboli che le componevano erano ricorrenti, tanto meglio le individuavano”. Nel terzo esperimento, venivano loro mostrati degli oggetti a Y con diverse forme unite a un loro estremo. Nell’esperimento 4 le immagini erano ancora più astratte e dissimili dalle lettere. In tutti gli esperimenti, il pattern di risposta è stato lo stesso dei due esperimenti precedenti, dando così pieno sostegno alla loro teoria. Dagli esseri umani all’intelligenza artificiale: l’apprendimento non supervisionato“Quanto emerso da questa indagine” spiegano Vidal e Crepaldi “non solo avvalora la nostra ipotesi ma ci racconta qualcosa di più anche del modo in cui apprendiamo. Si tratta di evidenze in linea con diverse teorie secondo cui la ricorrenza nell’esposizione passiva a uno stimolo visivo è alla base di una parte importante del nostro apprendimento”. Osserviamo ciò che ci circonda, e senza alcuna consapevolezza, lo destrutturiamo, lo decomponiamo in elementi e, così facendo, diamo al tutto un’identità. In gergo si chiama “apprendimento non supervisionato”. Quanto più spesso questi elementi si compongono in una precisa organizzazione, tanto più bravi saremo a dare a quella struttura un senso, siano un gruppo di lettere o un animale, una pianta o oggetto. E questo, dicono gli scienziati, avviene non solo nei bambini, ma anche negli adulti. “C’è, insomma, uno sviluppo adattativo agli stimoli che compaiono con regolarità. E questo è importante non solo per capire come funziona il nostro cervello, ma anche per il potenziamento dei sistemi di intelligenza artificiale che basano il proprio “apprendimento” su questi stessi principi statistici”.