Nella fase post acuta dell’infarto, nell’angina cronica stabile ad alto rischio e nei pazienti con malattia periferica, il cosiddetto “rischio residuo” è ancora molto alto. Diversi studi registrativi hanno, infatti, dimostrato che dal primo anno ai successivi cinque dall’evento infartuale c’è una recidiva di eventi cardiovascolari avversi, inclusa mortalità per cause cardiovascolari, di circa il 20%. Un paziente su cinque, dunque, dopo 3-4 anni da un infarto, può subire o una ri-ospedalizzazione, o un nuovo evento infartuale, o un ictus, oppure un evento fatale. Nei Paesi occidentali c’è, dunque, una frequenza degli eventi avversi molto elevata, anche nei pazienti che aderiscono correttamente alle terapie raccomandate.
Questo sta a significare che, in generale, i pazienti con infarto presentano un rischio appunto “residuo” che va al di là dell’evento unico, anche in pazienti che ricevono una rivascolarizzazione efficace e, quindi, questo sottolinea l’importanza della prevenzione secondaria e delle terapie farmacologiche in aggiunta a una rivascolarizzazione precoce che viene eseguita durante la fase acuta.
Negli ultimi 25 anni sono stati realizzati numerosi studi relativi alla coronaropatia cronica e alla malattia periferica ma, in realtà, non si è fatto altro che potenziare la terapia antiaggregante, senza mai osservare una riduzione della mortalità. Serviva qualcos’altro per diminuire questa frequenza di eventi.
Nel corso della 50° edizione del Congresso ANMCO concluso di recente a Rimini, in occasione di un simposio organizzato da Bayer, si è affrontato il tema dell’approccio sinergico del NOACs rivaroxaban e dell’ASA nella gestione del rischio cardiovascolare residuo.
Lo Studio Compass ha dimostrato l’efficacia di questo nuova paradigma terapeutico: in pazienti affetti da coronaropatie e/o arteriopatie periferiche croniche, l’impiego di rivaroxaban utilizzato a dosaggio vascolare associato ad aspirina al dosaggio di 100 mg/die, ha determinato una riduzione del rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari del 24%, sia pur incrementando, come atteso, le emorragie maggiori, ma non quelle fatali, nè quelle intracraniche, rispetto alla singola aspirina.
“Questo approccio terapeutico è sicuramente innovativo – ha affermato il Dottor Furio Colivicchi, Direttore della UOC Cardiologia del Presidio Ospedaliero S. Filippo Neri di Roma – perché le terapie finora utilizzate, cioè la doppia terapia anti-aggregante agisce, appunto, su due vie dell’aggregazione piastrinica. Invece con questo nuovo approccio stiamo parlando di un paradigma completamente nuovo: da una parte l’inibizione di una via dell’aggregazione, cioè il trombossano A2 mediante ASA a basso dosaggio, e poi l’inibizione della coagulazione mediante rivaroxaban, ovvero l’inibizione della trombina.”
È risaputo – continua il Dottor Colivicchi – che la trombina è uno dei maggiori attivatori delle piastrine, per cui con questa nuova strategia agiamo sia sulla coagulazione, sia sulle piastrine, attraverso meccanismi differenti da quelli tradizionalmente inibiti, l’inibizione del trombossano A2 e dei recettori PAR. Tutto questo non può che portare a un beneficio clinico, così come è stato dimostrato dallo Studio Compass.”
Durante il Congresso sono state prese in analisi anche altre categorie di pazienti che necessitano di una terapia anticoagulante ma che, a causa delle patologie concomitanti, richiedono un attento uso della stessa. Nel caso specifico, ci riferiamo ai pazienti affetti da Malattia Renale Cronica, che sono stati al centro di un simposio dedicato alla protezione del paziente “fragile”, che necessita di una terapia anticoagulante, perché affetto da patologie cardiovascolari.
Le patologie cardiovascolari sono la principale fonte di mortalità e morbidità nei pazienti affetti da malattia renale cronica, con un’incidenza direttamente proporzionale al grado di compromissione della funzione renale stessa. Nell’ambito della patologia cardiovascolare che impatta sull’outcome clinico di questi pazienti, un peso fondamentale è rappresentato dall’incidenza di aritmie, in particolare della Fibrillazione Atriale che, in questi casi, raggiunge un’incidenza del 7% circa.
Anche nei pazienti affetti da malattia renale cronica è indispensabile somministrare una terapia anticoagulante in grado di prevenire le complicanze tromboemboliche correlate alla presenza di FA, tenendo presente che, di per sé, questi pazienti, rispetto alla popolazione generale, presentano un rischio maggiore di ictus e sanguinamenti. Rischio che aumenta ulteriormente nei pazienti in trattamento dialitico. Per questo motivo, considerando anche gli ultimi dati di letteratura il trattamento anticoagulante con antagonisti della vitamina K viene prescritto con estrema cautela in questi soggetti.
Alla luce di ciò, l’avvento degli anticoagulanti ad azione diretta ha destato molto interesse, anche per il loro possibile impiego nella popolazione di pazienti affetti da malattia renale. Con opportune riduzioni di dosaggio, infatti, questi farmaci possono essere somministrati fino a valori di filtrato glomerulare pari a 15 ml/min/1.73mq.
Nell’ambito dei NOACs, rivaroxaban ha evidenziato un buon profilo di sicurezza ed efficacia nei pazienti con compromissione della funzione renale, con risultati clinici superiori a quelli evidenziati con warfarin.
Diverse recenti review hanno posto in primo piano il ruolo del dosaggio di 15 mg al giorno di rivaroxaban in pazienti con eGFR compreso tra 15 e 49 ml/min/1.73mq,evidenziando non solo una riduzione dei sanguinamenti maggiori e degli eventi tromboembolici rispetto a warfarin, ma anche un impatto favorevole sulla prognosi renale, come la riduzione degli episodi di danno renale acuto e del rischio di progressione della patologia.
“Il paziente con insufficienza renale è spesso trattato in modo subottimale – ha affermato la Dottoressa Roberta Rossini, Cardiologa del Dipartimento Emergenza e Aree Critiche dell’Azienda Ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo – Nei trial clinici randomizzati, i pazienti affetti da insufficienza renale vengono spesso esclusi o sono, comunque, ampiamente sottorappresentati. Inoltre, il timore che in tali pazienti si possa verificare un accumulo dei farmaci può indurre il Clinico a “sottotrattare” il malato. Purtroppo, però, va ricordato che questi pazienti presentano una probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore e, per questo motivo, dovrebbero ricevere i trattamenti più efficaci a disposizione”.
“È importante – continua la Dottoressa Rossini – che tali trattamenti presentino un adeguato profilo di sicurezza, al fine di ridurre il rischio di eventi avversi come, ad esempio, il rischio di sanguinamento. Nel caso del trattamento anticoagulante del paziente con fibrillazione atriale ed insufficienza renale, rivaroxaban, alla dose di 15 mg/die specificatamente studiata per questo tipo di pazienti, ha dimostrato, nello studio registrativo Rocket-AF, di essere una valida alternativa al warfarin in termini di efficacia e sicurezza. Infine – conclude la Dottoressa Rossini – recenti studi hanno dimostrato che l’impiego di rivaroxaban si associa ad una più lenta progressione di insufficienza renale, probabilmente per un effetto dei meccanismi d’azione del farmaco stesso. In particolare, l’uso di rivaroxaban si è associato ad un rischio più basso di una progressiva riduzione del eGFR ≥30% e ad un rischio ridotto di raddoppio dei valori di creatininemia. Sarebbe un ulteriore elemento significativo se tali dati venissero confermati dallo studio in corso XARENO”.