Le donne che hanno subito un infarto sono più a rischio rispetto agli uomini di essere colpite da scompenso cardiaco. E, sempre rispetto agli uomini, le donne colpite da scompenso cardiaco presentano un tasso di mortalità significativamente più alto. A chiederselo è un gruppo di ricerca internazionale guidato da studiosi dell’Università di Bologna che ha analizzato la storia clinica di oltre diecimila pazienti con tecniche di sequenziamento statistico e machine learning.
“Sappiamo che in questi casi c’è spesso una disparità di trattamento a sfavore delle donne, che deve sicuramente essere eliminata, ma dalla nostra analisi è emerso anche che esistono differenze biologiche significative tra maschi e femmine colpiti da infarto”, spiega Edina Cenko, ricercatrice dell’Università di Bologna e prima autrice dello studio, pubblicato sul “Journal of the American College of Cardiology”. I risultati ottenuti potranno essere utili per ipotizzare trattamenti personalizzati in grado di proteggere le donne colpite da infarto.
Ogni anno circa 15 milioni di persone in tutto il mondo subiscono un infarto miocardico: grave evento cardiovascolare che accade quando il flusso di sangue diretto verso il cuore è bloccato da un’ostruzione nelle arterie, rischiando così di danneggiare la sezione del muscolo cardiaco che non riceve più ossigeno.
Tra le complicazioni che possono seguire l’infarto, una delle più pericolose è lo scompenso cardiaco, cioè l’incapacità del cuore di lavorare in modo efficiente, pompando il sangue con la pressione necessaria: se si manifesta entro i primi 30 giorni il tasso di mortalità può essere fino a sei volte più alto. E diversi studi hanno dimostrato che tra le donne la possibilità di sviluppare questa condizione è più alta rispetto agli uomini.
Per cercare di capire i motivi di questa maggiore predisposizione delle donne allo scompenso cardiaco, gli studiosi hanno analizzato la storia clinica di 10.443 pazienti colpiti da infarto in 12 Paesi europei, controllando diversi fattori a partire dal ricovero in ospedale e per i successivi 30 giorni.
“Il nostro è il primo studio che esamina le differenze tra i due sessi rispetto allo sviluppo di scompenso cardiaco e alle conseguenze dell’infarto”, dice Edina Cenko. “I dati che abbiamo ottenuto ci dicono da un lato che per le donne è più alta la probabilità di sviluppare uno scompenso cardiaco dopo l’infarto e dall’altro che per le donne con scompenso cardiaco la mortalità è più alta rispetto agli uomini”. Significativamente più alta: a parità di condizioni, dicono gli studiosi, per le donne lo scompenso cardiaco ha una pericolosità doppia rispetto agli uomini.
Ma quali sono le cause di queste differenze così marcate? I ricercatori puntano il dito verso i disturbi microvascolari: una condizione comune tra le donne che colpisce i vasi sanguigni più piccoli, come i capillari, rendendo vulnerabile il sistema cardiocircolatorio. Dopo un infarto, la presenza di questo tipo di disturbi potrebbe favorire l’insorgere di uno scompenso cardiaco.
“Le disfunzioni microvascolari, che sono più comuni tra le donne rispetto agli uomini, potrebbero essere associate all’insorgere di uno scompenso cardiaco, aumentando anche il livello di mortalità”, conferma Edina Cenko. Cosa si può fare allora per superare questa disparità? “Questi risultati ci dicono quanto sia importante oggi tenere in considerazione il sesso come variabile per sviluppare terapie ottimali”, aggiunge la ricercatrice. “L’obiettivo ora è sviluppare terapie farmacologiche adeguate per le donne, e per farlo è necessario includere un numero maggiore di donne negli studi clinici”.
Pubblicato sul “Journal of the American College of Cardiology” con il titolo “Sex-Related Differences in Heart Failure After ST-Segment Elevation Myocardial Infarction”, lo studio è stato possibile grazie al lavoro di Edina Cenko e Olivia Manfrini, attive nel gruppo di ricerca coordinato dal professor Raffaele Bugiardini presso il Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna.
La ricerca è stata realizzata grazie al lavoro di un team interdisciplinare, in collaborazione con studiosi di machine learning dell’Università di Cambridge e dell’Università della California Los Angeles e con studiosi di cardiologia dell’Università di Belgrado, dell’Università di Zagabria e dell’Università Santi Cirillo Metodio.