Il tumore uroteliale metastatico origina dalle cellule dell’urotelio, ovvero dal tessuto che riveste l’apparato urinario: la vescica risulta l’organo più colpito da questa neoplasia, che, con circa 21.000 nuovi casi ogni anno è la quarta tra le neoplasie maschili per incidenza, mentre risulta molto meno frequente nel sesso femminile.

Attualmente l’unica terapia efficace contro il carcinoma uroteliale diagnosticato già in stadio avanzato o metastatico è la chemioterapia a base di platino in associazione alla gemcitabina, che offre un tasso di sopravvivenza inferiore all’8% a 5 anni dalla diagnosi.

Uno studio clinico multicentrico di fase 3, a cui ha partecipato l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, insieme ad altri 184 centri distribuiti in 25 paesi di tutto il mondo, ha indagato l’efficacia e la sicurezza di una nuova combinazione terapeutica.

Sono state reclutate 886 persone con carcinoma dell’urotelio diagnosticato in fase avanzata o metastatica e non ancora trattato, di cui 18 al Policlinico San Martino, che è risultato essere il primo centro reclutatore in Italia e tra i primi in Europa.

I pazienti, per il 77% uomini e con età media di 69 anni, sono stati suddivisi in due gruppi: 442 persone hanno ricevuto la cura sperimentale, costituita dalla  somministrazione settimanale di enfortumab vedotin in combinazione con somministrazioni di pembrolizumab ripetute ogni 21 giorni dall’inizio del trattamento, mentre 444 partecipanti sono stati assegnati al gruppo di controllo che ha ricevuto il protocollo chemioterapico standard a base di sali di platino in associazione alla gemcitabina.

“Studi precedenti avevano già rilevato come i singoli farmaci sperimentali mostrassero una maggiore efficacia rispetto alla chemioterapia nelle fasi più avanzate e dopo trattamento chemioterapico. Questo studio ha confrontato per la prima volta un loro uso combinato verso il trattamento standard nei pazienti affetti da carcinoma uroteliale metastatico non trattato – spiega il dott. Giuseppe Fornarini, dell’Oncologia Medica 1, referente dello studio e coordinatore del DMT delle neoplasie urologiche per il Policlinico San Martino – Gli obiettivi della nostra ricerca erano due: valutare se la strategia terapeutica offrisse benefici ai pazienti in termini di miglioramento della sopravvivenza e monitorare l’andamento della malattia e le tossicità correlate alla nuova combinazione. I dati del follow up, durato in media 17.2 mesi, hanno evidenziato che il trattamento combinato enfortumab vedotin-pembrolizumab è collegato ad un rischio complessivo di morte e di progressione della malattia più basso del 55% rispetto alla terapia standard: nello specifico, permette di raddoppiare la vita dei pazienti e di bloccare l’espansione tumorale, prolungando a 12,5 mesi il periodo di remissione nel braccio sperimentale contro i 6,3 mesi delle persone in chemioterapia”.

Inoltre, il nuovo protocollo terapeutico ha mostrato un profilo di sicurezza e di tollerabilità più alto: “il 56% dei pazienti che hanno ricevuto enfortumab vedotin più pembrolizumab e il 70% tra quelli trattati con la chemioterapia hanno registrato effetti collaterali ritenuti medio-gravi, tra cui rash cutanei, iperglicemia e neutropenia, molti dei quali comunque controllabili e gestibili con la modifica delle dosi di farmaco – continua Fornarini, che conclude – i risultati del lavoro, presentati al congresso della Società Europea di Oncologia Medica e ora pubblicati sull’importante rivista ‘The New England Journal of Medicine’, rappresentano un enorme passo in avanti per tutte le persone colpite da un tumore che, quando in stadio avanzato, ha avuto sino ad ora limitate possibilità di cura”.