All’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e all’Ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute di Torino prende il via una nuova sperimentazione clinica di Fase II con l’utilizzo del farmaco alpelisib nei pazienti con mutazione del gene PIK3CA. Da questa anomalia genetica dipendono un gruppo di condizioni / sindromi rare spesso congenite, caratterizzate da accrescimento eccessivo asimmetrico di uno o più distretti corporei. Lo studio coinvolgerà oltre 30 Centri in tutto il mondo ed arruolerà in totale circa 170 pazienti nelle diverse fasce di età. L’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” come capofila e l’Ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute di Torino sono gli unici due Centri italiani coinvolti in questo studio.

Alpelisib è un medicinale sperimentale che ha come obiettivo PI3K, la proteina che non si comporta come dovrebbe a causa della mutazione. Il fine è bloccare l’iperaccrescimento ed eventualmente farlo regredire. Sviluppato da Novartis, il farmaco è stato già usato in un modello animale in laboratorio e su un piccolo gruppo di pazienti in Francia. In molti Paesi del mondo lo stanno inoltre già assumendo alcuni adulti e bambini con situazioni gravi e senza alternative terapeutiche nell’ambito di un programma di uso compassionevole dell’azienda produttrice. Come “uso compassionevole” di un farmaco si intende la possibilità di utilizzare medicinali o terapie per i quali non sia stata ancora completata la fase di sperimentazione clinica.

«La sperimentazione è importante, perché offre un’opzione terapeutica quando questa non c’è», spiega la dottoressa Paola Sabrina Buonuomo, pediatra esperta di malattie rare al Bambino Gesù e tra le ricercatrici della sperimentazione: «I dati su questo farmaco già pubblicati sono stati positivi ed hanno portato l’azienda a proporre la sperimentazione. Ci crediamo e ci attendiamo buoni risultati, ma sarà tutto da verificare».

Per ora alla sperimentazione verranno ammessi pochi pazienti divisi in due fasce d’età, una per i bambini di età compresa tra i 6 ed i 17 anni ed una per i maggiori di 18 anni, senza limite di età. «È prevista l’estensione in una fase successiva anche ad una fascia di bambini più piccoli, verosimilmente dai 2 ai 5 anni», continua la Buonuomo, che fa parte anche del comitato scientifico dell’AIMP, l’Associazione Italiana Macrodattilia e PROS. «I criteri per accedere alla sperimentazione sono disciplinati da un protocollo molto rigido, come da prassi in questi studi. In questa fase possono accedere allo studio bambini con mutazione specifica ed in condizioni cliniche severe, che compromettono la qualità della vita in modo decisivo. Per esempio, pazienti affetti da ipertrofia grave ad un arto, tale da non permettere loro di camminare. Oppure pazienti con difficoltà respiratorie causate da una ipertrofia al volto».

La sperimentazione è totalmente gratuita per le famiglie che vi accedono. Pazienti e genitori però devono mettere in conto un percorso impegnativo in termini di controlli. «Innanzitutto viene richiesta una nuova ricerca molecolare di conferma, in alcuni casi su un campione fresco, ovvero una nuova biopsia cutanea», spiega uno dei responsabili del trial all’Ospedale Regina Margherita, il professor Alessandro Mussa, pediatra dell’ospedale torinese e professore associato al Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università degli Studi di Torino. «Il trial infatti richiede che venga confermata ulteriormente la mutazione del gene PIK3CA, vista la complessità di questa condizione genetica. Chi partecipa al trial dovrà anche essere sottoposto ad una serie di altri esami mirati ad ottenere un quadro quanto più preciso possibile delle condizioni cliniche. Sono previsti quindi esami del sangue, un’ecocardiografia, alcune visite e controlli in risonanza magnetica con i quali verranno monitorate le zone corporee che tendono a crescere esageratamente: tutto finalizzato a documentare e quantificare nel tempo gli eventuali miglioramenti o peggioramenti di queste alterazioni durante la terapia col farmaco ed a verificare l’assenza di ogni eventuale effetto collaterale».

Famiglia e paziente devono mettere in conto anche giornate in ospedale per questi controlli. C’è poi un altro aspetto molto importante che i pazienti inclusi nella sperimentazione devono tenere in considerazione: «Lo studio è con placebo, quindi esiste un processo cosiddetto di randomizzazione», chiarisce il professor Mussa, anche lui membro del comitato scientifico dell’AIMP, «per cui chi aderisce al trial accetta di avere due possibilità su tre che gli venga somministrato il farmaco ed una su tre di ricevere il cosiddetto placebo, ovvero una compressa simile al farmaco, ma priva del principio attivo. In questa fase, nemmeno i medici sono a conoscenza di chi riceverà davvero il farmaco. Tale procedimento è indispensabile per verificare l’efficacia del farmaco. La randomizzazione dura sei mesi, poi anche chi ha inizialmente ricevuto il placebo, passa al farmaco. Nel primo anno, il più complesso, i controlli sono intensi ed impegnativi, ma si diradano nel corso del tempo fino ai 4 anni». Questo impegno però può essere decisivo e non solo per chi affronta la sperimentazione. In caso di risultati soddisfacenti, infatti, la sperimentazione andrebbe avanti con ulteriori fasi, fino alla commercializzazione, che potrebbe portare benefici anche a chi ha mutazioni e forme clinicamente meno severe di quelle attualmente previste dai criteri di inclusione dello studio.

«Ci attendiamo molto da questa sperimentazione», dice Mussa, «mi aspetto un arrestarsi della progressione dei sintomi e non sarei stupito se ci fosse anche una parziale regressione dell’iperaccrescimento; le prime esperienze sono molto promettenti». In attesa di un’eventuale nuova fase della sperimentazione, cosa possono fare le famiglie che non accedono al trial? «Grazie ai programmi di accesso alle cure “ad uso compassionevole” esiste sempre questa opzione terapeutica riservata ai casi che non possono partecipare e di particolare severità», conclude il ricercatore dell’Ospedale Regina Margherita: «Un percorso che va però personalizzato e stabilito con i medici dei Centri specializzati che hanno in carico il paziente».