L’esposizione prolungata per diversi anni ad alcuni inquinanti presenti nei luoghi di lavoro è correlata ad una maggiore probabilità di incorrere in gravi malattie del fegato. È quanto emerge da uno studio pilota condotto dall’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola, in collaborazione con l’Università di Bologna, l’Istituto Ramazzini e l’Università di Ferrara, e pubblicato di recente sulla rivista “Digestive and Liver Disease”. Secondo i risultati della ricerca, sostenuta dal Ministero della Salute con un finanziamento da 288mila euro, i lavoratori rimasti a contatto per più di vent’anni con coloranti, metalli, refrigeranti alogenati ed emissioni dei gas di scarico hanno mostrato una maggiore propensione allo sviluppo di malattie epatiche avanzate e carcinomi del fegato. 

“Non vogliamo suscitare allarmismi – premette Francesco Tovoli, ricercatore dell’unità operativa di Medicina Interna, Malattie Epatobiliari e Immunoallergologiche diretta dal professor Fabio Piscaglia – per confermare questa associazione e soprattutto per stabilire una correlazione causa-effetto con specifici inquinanti servono ulteriori studi multicentrici. Ma, nel nostro piccolo, questo studio ha dimostrato che in determinate condizioni l’esposizione a inquinanti può costituire un ulteriore fattore di rischio. L’obiettivo ultimo è quello di prevenire future forme di cancro e cirrosi”.

La ricerca, condotta in collaborazione con l’unità operativa di Medicina del Lavoro diretta dal professor Francesco Saverio Violante, si è concentrata in particolare sui pazienti affetti da steatosi epatica o da “malattia del fegato grasso”. Si tratta di una condizione molto comune, caratterizzata per l’appunto dall’accumulo di grasso del fegato. Nella stragrande maggioranza dei casi non si manifesta con sintomi evidenti, mentre più raramente la sua progressione può portare a steatoepatite, fibrosi e, infine, allo sviluppo di cirrosi epatica e di carcinoma epatocellulare. 

Tra il marzo 2018 e il febbraio 2021 lo studio ha dunque arruolato 201 persone con diagnosi di steatosi epatica, dividendoli poi in due gruppi: i pazienti con complicazioni e pazienti senza complicazioni. Attraverso la compilazione di un apposito questionario, i ricercatori hanno quindi raccolto informazioni circa le abitudini di vita, la storia lavorativa e l’esposizione a sostanze tossiche, tanto sul luogo di lavoro quanto a casa. “La tossicità epatica di diversi inquinanti è cosa nota e dimostrata in laboratorio – spiega Tovoli – Secondo lo “United States National Institute for Occupation Safety and Health” il 33% delle sostanze chimiche più comunemente utilizzate sui luoghi di lavoro è associato a tossicità epatica. Ma finora questo rischio non era ancora stato valutato a livello clinico. Noi abbiamo cercato di colmare questa lacuna non per demonizzare alcun settore produttivo, ma con l’obiettivo di facilitare lo sviluppo di strategie di prevenzione e diagnosi precoce per le persone a rischio, dal momento che si tratta di sostanze non facili da evitare completamente”.

Risultato: dei pazienti con complicanze, il 27% è stato esposto a lungo termine a coloranti, pigmenti, vernici e resine, il 20% a gas di scarico, il 33% a solventi e, soltanto per fare un altro esempio, il 44% a metalli. Insomma, come si legge nelle conclusioni: i dati “supportano l’ipotesi di effetti dannosi dell’esposizione pluridecennale a sostanze tossiche sul posto di lavoro dei pazienti con steatosi epatica”.