Una ricerca condotta dal Laboratorio di Neuropatologia Molecolare dell’I.R.C.C.S. Neuromed, in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma, l’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù e la Harvard Medical School, apre una nuova strada al trattamento del glioblastoma multiforme.
Lo studio, pubblicato sulla rivista ACS Chemical Neuroscience, ha impiegato il farmaco standard per la terapia del glioblastoma: il temozolomide. L’azione di questa molecola viene purtroppo limitata dalla cosiddetta barriera ematoencefalica, che separa le cellule cerebrali dal flusso sanguigno impedendo il passaggio di molte sostanze contenute nel sangue. È una strategia che l’organismo impiega normalmente per proteggere i neuroni, ma, proprio a causa di questa barriera, solo una piccola quantità di farmaco riesce a raggiungere effettivamente le cellule tumorali.
Il fisico coinvolto nello studio, al fine di aumentare l’efficacia di penetrazione del farmaco, ha incapsulato le molecole di temozolomide in un rivestimento costituito da particolari lipidi, realizzato con procedure nanotecnologiche.
“La prima fase di esperimenti è stata condotta in laboratorio– dice la dottoressa Antonella Arcella, prima firmataria del lavoro – dove abbiamo usato cellule endoteliali del cordone ombelicale. Queste cellule si comportano in modo molto simile a quelle della barriera ematoencefalica, quindi sono un ottimo modello di studio. In questo modo abbiamo potuto vedere come il rivestimento lipidico permetta al farmaco di diffondersi oltre la barriera, con un’efficacia maggiore del farmaco non coniugato. Questa fase è solo l’inizio di una sperimentazione che sarà traslata su cellule di glioblastoma umano”.
C’è ancora un altro aspetto da considerare: con questo trattamento non solo il farmaco attraverserebbe più facilmente la barriera ematoencefalica, ma ne verrebbe potenziata la sua capacità antitumorale. “Una volta esposto al plasma del paziente – spiega la ricercatrice – attorno al rivestimento lipidico che racchiude il temozolomide si forma una corona di proteine capaci di legarsi a particolari recettori di membrana delle cellule di glioblastoma. Questo porta le particelle contenenti il farmaco a legarsi con maggiore affinità proprio alle cellule tumorali, aumentando l’efficacia terapeutica”.
“La strada da percorrere sarà lunga – commenta Arcella – ma la prospettiva è di rendere più efficace una molecola già in uso, questo significherebbe poter ridurre le dosi da somministrare al paziente con una marcata riduzione degli effetti collaterali”.